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 2011  maggio 09 Lunedì calendario

PRATI, DA ADULTERI

«Ci vediamo sotto casa di Moravia?». Il luogo indicato da Giorgio Montefoschi per un sopralluogo nel quartiere Prati non è casuale. Alla casa di Alberto Moravia si è ispirato per raccontare l’ abitazione del protagonista del suo romanzo più recente, intitolato «Eva» e in uscita in questi giorni da Rizzoli. Una vicenda che si svolge in gran parte nelle vie intorno a piazza Mazzini, tra il lungotevere della Vittoria, viale Carso, via Achille Papa, via Giuseppe Ferrari. Noto cantore dei Parioli, dove è nato e ha vissuto fino a una quarantina di anni fa, quando si è trasferito a Grottarossa, questa volta lo scrittore ha deciso di cambiare lo scenario del suo libro. «In realtà questo quartiere non lo amo affatto, troppo contiguo alla Rai, dove ho lavorato per tanti anni. Ricordo le domeniche d’ estate passate a montare i servizi di "Mixer", con questi viali deserti, pensando che tutti erano al mare». Allora perché ha deciso di raccontarlo? «Volevo far vivere i personaggi in una situazione di prigionia, schiavi di un amore ossessivo. Se avessi ceduto alla tentazione di un quartiere mio, troppo condiscendente e amico, non sarei riuscito a rendere questa sensazione». La storia è quella di un adulterio consumato in una manciata di mesi. Nasce d’ estate e si esaurisce nell’ autunno dell’ anno successivo. In mezzo, un via vai tra l’ abitazione di lui, Giovanni, sul lungotevere della Vittoria, e quella di lei, a via Francesco Denza, dall’ altra parte del fiume. Poi c’ è un amico, Giorgio Scarpa, che abita a via Achille Papa. «Anche per questa casa mi sono ispirato a un appartamento che conoscevo bene, quello di Giorgio Manganelli, che ha vissuto nella stradina parallela, via Chinotto. Ho sempre avuto bisogno di far muovere i protagonisti dei miei racconti in luoghi che ho frequentato. I luoghi nei romanzi sono degli straordinari trasmettitori psicologici che dipingono i sentimenti dei personaggi in maniera molto più evidente di una descrizione del sentimento stesso. Flaubert, maestro inarrivabile, sosteneva che anche le cose hanno un’ anima». Nel ristorante di via Ferrari, dove d’ estate vanno a cenare gli uomini lasciati soli dalle mogli in vacanza, Giovanni consuma le cene con Scarpa. E celebra il funerale dell’ amico nella chiesa di Cristo Re, la stessa dove si svolsero le esequie di Manganelli. «Non sa quante volte sono venuto di notte a camminare per questo lungotevere, per ascoltarne i rumori», confida Montefoschi. Nelle pagine descrive il brusio della notte estiva rinforzato dal gracidio delle rane nascoste nelle sponde del fiume. Più che una prigione, però, questo pezzetto di città sembra immerso in una bolla di vetro, che lo preserva dal chiasso, dall’ inquinamento, dagli ingorghi del traffico. Ogni rumore arriva attutito, a parte il ruggito delle cicale nel cuore di agosto. Il cielo trascolora pieno di luce, con striature di perla. I gabbiani si rincorrono all’ alba ebbri di gioia. Il chiarore della luna arriva fino ai pini di Villa Balestra, di là dal Tevere. E i protagonisti si muovono per le strade senza figure di contorno, come se fossero gli unici esseri viventi. Neppure un cameriere a servire un toast o una birra. Neppure un passante da incrociare nelle numerose passeggiate. Come negli sceneggiati televisivi del commissario Montalbano, che non prevedono comparse e forse per questo appaiono così nitidi ed eleganti. Eppure, questo pezzetto di città vive e respira, si profuma nelle serate primaverili e diventa torvo nelle giornate di scirocco. Si finisce per amarlo come un luogo mitico. A renderlo inquietante, solo i passi del protagonista, scanditi dallo scorrere delle ore, che l’ autore registra con ossessione, come se da un momento all’ altro dovesse accadere un delitto.
Lauretta Colonnelli