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 2011  maggio 16 Lunedì calendario

I McDonald’s e il mangiar bene

Mangiamo meglio. La prova? L’invasione dei fast food - La notizia è che ormai sono rimasti soltanto in tre: Albania, Montenegro e Città del Vatica­no. Gli unici Paesi senza un McDonald’s, il simbolo del cibo globale per chi lo odia, ma anche per chi lo ama; in ogni caso, del cibo, o meglio di un luogo dove mangiare non è un problema, ma un’abitudine data per sconta­ta. In effetti è fuori pure l’Islanda, ma a causa della crisi economi­ca: lì la catena di fast food è stata costretta a chiudere, mentre a Sa­rajevo aprirà fra pochi mesi il suo primo ristorante. Un’altra ban­dierina nel Vecchio continente, a marcare una differenza di quel­le che contano nella mappa del mondo: perché a guardare be­ne, se in un Paese c’è McDo­nald’s significa che il cibo è ab­bondante. Con orrore degli amanti del biologico e dei vegeta­riani, con sdegno di chi vede i fast food come il nemico dello spirito e del corpo, nonostante lo­ro si sforzino da anni di scrollarsi di dosso l’immagine di rifugio di ogni peccato culinario, dai grassi agli zuccheri alle bibite alle calo­rie, tutte oscenità impronuncia­bili (figuriamoci se mangiabili) per i profeti del salutismo alimen­tare. Eppure è così: il famigerato «Mac» è quasi assente in Africa, per esempio; non pervenuto nel­le zone dell’Asia centrale (Uz­bekistan, Mongolia, Afghani­stan, Turkmenistan...) e latitante in paesi come Laos, Myanmar, Bangladesh, ma pure la Corea del Nord e la poverissima Haiti. Ora però, questo è un parados­so solo in parte. Dice Paolo Ros­si, storico della scienza e della fi­losofia, che è proprio nella no­stra epoca e nel nostro mondo, dove il cibo abbonda come mai in passato,che l’alimentazione è diventata un problema, un’os­sessione. È solo con la pancia bel­la piena ( o almeno con la possibi­­lità di riempirla senza difficoltà) che la passione gastronomica si può trasformare in mania e l’at­taccamento alle convinzioni, co­me in tanti altri campi, diventare ideologia, e spesso ottusità. Per esempio ci sono i seguaci dell’« ortoressia», che portano il saluti­smo alle conseguenze più assur­de, a volte estreme anche per il fisico: «il pesce contiene mercu­rio, la mucca pazza ha reso im­mangiabile la carne, l’aviaria ha fatto lo stesso per il pollo, i salumi provocano i foruncoli che rovina­no la pelle, il grasso delle fette di prosciutto può andare di traver­so e soffocare, lo zucchero provo­ca il diabete, il burro fa crescere il colesterolo, l’insalata e le verdu­re sono pieni di pesticidi» spiega Rossi nel suo libro Mangiare , ap­pena pubblicato da il Mulino. E che cosa resta allora? Di sicuro il disprezzo per gli altri, che man­giano quel che pare a loro, senza criterio, poveracci. E poi le la­mentele, a chili, tanto che «indi­gnarsi sembra l’unica cosa che gli intellettuali siano ancora in grado di fare», dice Rossi, sem­pre che non siano impegnati nel­l’ «arte della predica apocalitti­ca ». È facile immaginare i contenu­ti, ma per essere più chiaro il pro­fessore ( che non è certo un pala­dino dei fast food) cita Philippe Ariès, accusatore del «sistema McDonald’s»,che avrebbe la col­pa imperdonabile di essere «le­gato alla vittoria della razionalità economica». Come fosse solo la catena americana a inseguire i profitti, come se il biologico e il «naturale» non fossero un busi­ness, con alle spalle affari per mi­lioni. Ma il «Mac» «dequalifica e squalifica il personale... succube della relazione incestuosa con la società madre». E poi è il simbo­lo della «standardizzazione»,del­la «mondializzazione commer­ciale » che ci avrebbe invaso, or­mai, anche se poi in realtà non si fa che un gran parlare di prodotti locali, tradizioni, doc e docg. Ma queste sono illusioni per gente che non si indigna, è ovvio. Perso­ne che si lasciano abbindolare dalla quantità e qualità dei tre­quattro pasti quotidiani, anzi­ché rimpiangere come si stava bene in passato, in quel mondo presunto naturale in cui l’esisten­za, secondo qualcuno, era idillia­ca. Ecco il paradosso, alla fine: «Ci sono persone che si guada­g­nano una vita di benessere inse­gnando ai loro concittadini a mangiare poco» scrive Rossi; e questo può accadere perché nei paesi più benestanti sembra ci sia «una nascosta forma di no­stalgia per il mondo del malesse­re », «l’ipotetica, invidiabile vita innocente e serena di “primitivi” che nella realtà vivono molto du­ramente, soffrono molto, muoio­no­molto giovani e vedono mori­re molti dei loro figli ». E non è fini­ta. A chi favoleggia dei paradisi perduti (ignorando il tasso di mortalità entro il primo anno di vita, per esempio, che in Italia nel 1865 era di 230 bambini ogni mille nati vivi e nel 2000 era di 4,3 ogni mille) Rossi ricorda che an­che il mitico «cibo genuino» era portatore di malattie, le carestie erano un incubo costante e le fro­di­alimentari erano già molto dif­fuse: «al caffè veniva aggiunta la cicoria, al pepe la spazzatura, al­lo zucchero la polvere di marmo, alla farina il gesso, allo zafferano l’ocra carmine, al pane il solfato di calce e le ossa macinate». Che schifo l’hamburger, vero?