MARCO ZATTERIN, La Stampa 16/5/2011, 16 maggio 2011
Un museo per l’acqua: “E’ la madre della storia” - Su migliaia di rosse lastre di arenaria indiana tagliate a mano hanno incastonato un medaglione rotondo con iscritta una poesia circolare, senza inizio e senza fine
Un museo per l’acqua: “E’ la madre della storia” - Su migliaia di rosse lastre di arenaria indiana tagliate a mano hanno incastonato un medaglione rotondo con iscritta una poesia circolare, senza inizio e senza fine. A tradurla dal neerlandese recita «...dove l’acqua vigila e ciò che aveva valore è stato conservato». Nella versione italiana si perdono le assonanze, ma non il senso profondo. Sulle rive della Schelda, l’acqua ha forgiato le vite dei fiamminghi, ha fatto la storia dei loro coraggiosi commerci, ha generato ricchezza e ispirato arti raffinate. Riconoscenti, gli eredi di Rubens e Mercator le hanno dedicato un monumento che sfida il futuro. E’ il Museo del fiume, quel fiume che qui, nel secondo porto più trafficato d’Europa, è per forza di cose anche il mare. Si vede da lontano. E’ una torre alta 65 metri che pare un punto esclamativo piantato nei vecchi docks della capitale delle Fiandre, quartiere a lungo desolato, schiacciata fra lo squallido distretto a luce rosse e la terra di nessuno abbandonata dagli impianti portuali spintisi fuori dal centro alla ricerca dal mare del Nord, che oggi dista 80 chilometri. Fra 55 progetti in gara, le autorità locali hanno scelto quello di Neutelings & Riedijk, colpiti dalla visione che impilava dieci parallelepipedi di pietra a forma di container, intervallati con larghi spazi aperti protetti da vetri ondulati. Piaceva l’idea del magazzino portuale in rotta a spirale verso l’infinito. L’acronimo fiammingo è Mas. Come Masterpiece, capolavoro, ricordano le t-shirt già in vendita all’entrata. Si inaugura ufficialmente domani, ma nel fine settimana è stata festa grande lungo il fiume e sull’acqua. Concerti, fuochi d’artificio e 50 mila visitatori attirati dalla Babele della diversità culturale, incapaci di decidere se siano sette musei o uno solo. E’ un bombardamento di sensazioni, combinate scegliendo fra i 470 mila oggetti della collezione fatta di contributi pubblici e privati. «Un’esperienza totale», promette il direttore Carl Depauw. Lo è. Il Mas, costato 56 milioni e costruito in quattro anni, si candida ad essere il museo dell’anno per qualche anno. E’ il concetto che colpisce. Si stimola la curiosità del visitatore accorpando. La prima sfida è al secondo piano, nel «Deposito visibile», dove è archiviato quello che non si poteva esporre, 180 mila pezzi. Ci sono bacheche e cassetti, armadi e scaffali. Ospitano statue di santi, marionette, modelli di navi, candelieri, vasi cinesi, armi, e ovviamente quadri. Sono le collezioni della gente di Anversa che la città conserva con orgoglio. Ti aspetti di trovare anche l’Arca di Indiana Jones. Quella, però, se ci fosse sarebbe al quarto o al settimo piano, fra le «Manifestazioni di potere» o ne «L’Uomo e Dio». L’organizzazione del museo è concettuale. Non si insegue una cronistoria, non l’omogeneità della fattura, quanto il significato intrinseco degli articoli. Anche dove sarebbe facile fare altrimenti - nel piano dei «Capolavori al Mas» - le tele sono mescolate. S’inizia con due Rubens lignei portentosi e, dopo una croce di pane ipermoderna (René Heyvaert), si svela una Santa Barbare di Van Eyck che toglie il respiro. Per questo sotto ci hanno messo una poltrona. Ci si può sedere a prender fiato. Lì a fianco, passata una parete con cinque secoli di deposizioni del Cristo, c’è la Stanza delle meraviglie. Rosso sangue, conserva di tutto. Da uno scafandro a Bruegel il vecchio, passando per un pesce palla. Si comprende cosa hanno cercato e come, i ricchi di ogni secolo, concetto ribadito al quarto piano, dove va in scena «Segni di Potere», storie di Anversa, Obama e Picachu. Luci vellutate. Immense facce che ti guardano. E’ ancora la metropoli sull’acqua che deflagra al quinto livello, aperitivo del sesto, «Un porto per il mondo». Ecco le navi, decine, dai vichinghi ai transatlantici. Polene, cime, frammenti di torpedo, quaderni con appunti di cinese. E’ l’enciclopedia tangibile della conquista del mare che, nella torre di Anversa, prepara all’ultimo passo prima del cielo, che si impone salendo ancora, «La vita e la morte» a cui si accede in una inquietante oscurità, e «La vita dopo la morte». Dall’Egitto al Tibet si viaggia nei culti e nelle credenze, sino a una sala in cui cristianesimo, ebraismo e Islam hanno lo stesso peso. La musica è sacra, cori di monaci si fondono e ingannano le orecchie. Dalla terrazza si comprende la fortuna di Anversa, plasmata dal fiume che fa il mare perché il mare non c’è. Nella piazza là sotto la stella fiamminga contemporanea, Luc Tuymans, ha composto un immenso mosaico, «Il teschio morto». E’ il richiamo ulteriore al comune destino degli uomini, l’ultima immagine di un museo che fa pensare chi ha la testa, come Harrods a Londra stimola chi ha i denari. Tutto si intreccia in un ordine ispirato dall’anima delle cose nella torre che è un’altra città ideale. Pure lei, come Anversa, bagnata da una Schelda intenta a distribuire i suoi liquidi favori di vita e gloria come sempre e come se nulla fosse.