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 2011  maggio 14 Sabato calendario

STRATEGIA EUROPEA PER LA CRISI GRECA

È la matematica a dire che la ristrutturazione del debito greco è sempre più probabile. La variazione nel tempo dello stock di debito in rapporto al Pil dipende dall´avanzo/disavanzo primario (la differenza tra imposte e spesa pubblica prima degli interessi) e dal cosiddetto "effetto valanga" (la differenza tra l´onere sul debito e la crescita del Pil a prezzi correnti). Con la crescita limitata dalla politica di austerità e dalla bassa competitività, e l´inflazione calmierata al 2% dalla Bce, il Pil nominale della Grecia non potrà crescere più del 4%. Se anche il costo del suo debito scendesse al 6% , molto inferiore a quello attuale, e non più di 3 punti superiore a quello tedesco, ci vorrebbe un avanzo primario del 6% l´anno per trent´anni per portare il debito greco al 60% del Pil; "solo" 22 per scendere all´80%. Irlanda e Portogallo sono in una situazione similare. Non è realistico che paesi già in difetto di competitività e senza la possibilità di svalutare, sopportino così a lungo i costi sociali di politiche di austerità così drastiche.
Le possibilità sono due. La prima è che i paesi dell´Eurozona con alto merito creditizio, Germania e Francia in primis, garantiscano direttamente, emettendo bond europei, o indirettamente (chiedendo al nuovo Fondo di Stabilità, da loro garantito, di ritirare il debito degli stati in crisi) il finanziamento a tassi bassi di Grecia, come di Irlanda e Portogallo. Di fatto trasformerebbe l´unione monetaria in unione fiscale: ma presuppone un consenso politico che oggi manca.
La seconda è un colpo di spugna su una grossa fetta del debito pubblico greco, attraverso una qualche ristrutturazione: consolidamento; moratoria degli interessi; o swap del vecchio debito col nuovo. Sarebbe molto oneroso per la Grecia che, non potendo poi accedere al mercato dei capitali, dovrebbe finanziare l´intera spesa pubblica con le tasse. Una prospettiva però non molto diversa da quella attuale.
Il taglio del valore del debito pubblico provocherebbe il fallimento di molte banche greche; e gravi perdite alle banche francesi e tedesche, esposte complessivamente verso la Grecia per 90 miliardi (305 se aggiungiamo Portogallo e Irlanda): un grave shock per il sistema bancario dell´Eurozona, col rischio di una nuova crisi di liquidità. Per questo (e per evitare gravi perdite sui titoli ricevuti in garanzia dalle banche dei paesi a rischio) la Bce si oppone con forza. Ma se Germania e altri paesi dell´Eurozona non sono disposti a finanziare a oltranza i paesi in crisi, non ci sono alternative. I prestiti accordati, la costituzione del nuovo Fondo di Stabilità e le misure di austerità concordate fin qui non sono bastati neppure ad arginare la crisi di fiducia: il costo del debito greco e degli altri paesi ad alto rischio ha continuato a salire. Non sorprende: essendo una crisi di solvibilità, e non di liquidità, i finanziamenti non risolvono il problema, ma lo rinviano, rischiando di aumentarne il costo.
Ci sarebbe una terza via: l´uscita in qualche modo dall´euro della Grecia. Ma è la più costosa per tutti e, quindi, la meno probabile. La Grecia non eviterebbe una recessione; le sue banche fallirebbero comunque; lo shock per il sistema bancario europeo sarebbe anche maggiore; le imprese tedesche perderebbero la competitività accumulata; l´euro sarebbe a rischio; e i costi politici sarebbero ingenti per tutti.
Il problema è politico, non finanziario. Complessivamente, il debito pubblico dell´Eurozona è pari all´88% del suo Pil: meno di Usa, UK o Giappone. Sarebbe gestibile. Con l´euro, il debito di un paese finisce nei portafogli di tutta l´Eurozona. Ma senza unione fiscale non c´è accordo politico sulla redistribuzione dell´onere del disavanzo dei paesi, nel caso il mercato dei capitali si rifiutasse di finanziarlo. È un difetto di fabbricazione dell´euro. Ora non ci sono i tempi per aggiustarlo. Ecco perché l´ipotesi ristrutturazione diventa ogni giorno più probabile; che non significa auspicabile, o priva di costi e di rischi. Così, invece di negare l´innegabile, i governi europei farebbero meglio a pensare a un piano B, per trovarsi preparati, nell´eventualità di una ristrutturazione, a mitigarne i costi.