Marco Moussanet, Il Sole 24 Ore 12/5/2011, 12 maggio 2011
SI ALZA IL VELO SUI CONTI DI PARIGI
Numeri continuano a non darne, in attesa che venga reso noto il prospetto consegnato alla Consob. «Allora tutte le vostre curiosità saranno soddisfatte», sorride Michel Nalet, direttore della comunicazione e uomo-immagine di Lactalis. Ovviamente davanti a un piatto di formaggi. Eppure qualcosa comincia a filtrare, sulla stampa francese. Secondo il quotidiano La Tribune il margine operativo sarebbe per esempio pari all’8-9% del fatturato, cioè sul livello del gruppo Bel (quello dei formaggini «La vache qui rit») e doppio rispetto a Bongrain, le altre due società familiari del latte francese.
Nessun particolare commento neppure sull’inchiesta: «Non ce l’aspettavamo, ma comunque Lactalis non c’entra. Noi ci siamo sempre mossi nel più scrupoloso rispetto delle regole».
Preferiscono parlare di altre cose, al quartier generale di Lactalis. Per esempio dei loro marchi. Se infatti per la Francia il 1968 è maggio, per Laval il 1968 è gennaio. Fino ad allora, con rarissime eccezioni, i prodotti erano marchiati Besnier. Fino a quando, appunto nel gennaio del 1968, il figlio del fondatore, Michel, incontra come da consuetudine i principali collaboratori: «Per il nostro camembert dobbiamo trovare un nome forte, identitario, che colpisca il consumatore. In Francia, dall’Eliseo in giù, sono tutti presidenti di qualcosa. Chiamiamolo Président». Un rapido controllo consente di verificare che il nome, incredibile ma vero, non è depositato. Cosa che Besnier si affretta a fare.
Quarantatre anni dopo, Président (camembert, ma anche burro e crema di latte) vale 1,5 miliardi di fatturato sui 9,4 di Lactalis. E simboleggia il successo di una strategia tutta basata sui marchi, su uno straordinario know how nella loro creazione e valorizzazione. Tutti conoscono Danone, Nestlé o Parmalat. Nessuno conosce Lactalis o Besnier.
Una dissociazione che oltre ad aver consentito lo sviluppo di raffinatissime politiche di marketing, mette in qualche modo prodotti così socialmente sensibili come quelli agroalimentari al riparo da molti rischi. La stampa sostiene che Lactalis è un gruppo aggressivo e misterioso, animato da spirito di conquista e dominazione? Tutto questo non sfiora nemmeno i suoi prodotti, che devono essere rassicuranti e affidabili, come tutto quello che riguarda il cibo.
Ed è certo uno dei punti di forza di Lactalis. Anche nella partita Parmalat. Tanto più che quello di Collecchio sarà uno dei tre marchi globali del gruppo, con Président e Galbani (1,2 miliardi di fatturato). Il secondo è l’internazionalizzazione spinta. È vero che Parmalat spalanca a Lactalis le porte del Canada, del Sudafrica, del Sudamerica, dell’Australia. Aggiungendo al colosso di Laval 69 impianti e il 27% del fatturato.
Ma i prodotti Lactalis (che ha realizzato 31 acquisizioni negli ultimi 5 anni) sono distribuiti praticamente ovunque. La quota di ricavi sui mercati esteri è passata dal 10% del 1990 all’attuale 60 per cento. E Galbani è lì a fare da modello, visto che nel 2006, al momento dell’acquisizione, era presente in 40 Paesi e oggi in 103.
Il terzo è la focalizzazione sull’industria. Non c’è finanza nella cultura, nella storia, nel Dna di Lactalis, se non quella al servizio dei progetti industriali. Non c’è la Borsa. Ma c’è la famiglia, che non ha alcuna intenzione di farsi distrarre rispetto a quello che sa e vuole fare.
Infine c’è la forza, anche contrattuale, di un gruppo che non si fa tanti scrupoli nell’usarla. Emblematico è lo scontro di questi giorni con un altro famoso rappresentante del capitalismo familiare: Michel-Edouard Leclerc. Da una parte il 21% del latte francese, dall’altra il 18% della grande distribuzione. Lactalis rivendica un aumento dei prezzi finali per assorbire quelli della materia prima, Leclerc rifiuta e Lactalis ritira tutti i suoi prodotti dagli scaffali di supermercati e centri commerciali. Leclerc strepita e denuncia. I clienti si arrabbiano. Lactalis tace. E non è difficile immaginare come andrà a finire.