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 2011  maggio 13 Venerdì calendario

LE PRIVATIZZAZIONI? ADDIO. IL TURISMO AFFARE DI STATO —

Scivolati in quarant’anni dalla prima alla quinta posizione fra le mete turistiche mondiali, relegati al ventottesimo posto per competitività in un settore nel quale un Paese come il nostro, con il record planetario assoluto di siti Unesco, non avrebbe rivali, dovevamo aspettarci anche questo. E cioè che lo Stato tornasse a essere nel turismo il principale imprenditore del Paese. Come accadeva ai tempi andati della ex Cassa del Mezzogiorno. Nei giorni scorsi è stato formalizzato il trasferimento a Italia turismo, società controllata da Invitalia (la ex Sviluppo Italia) e proprietaria di 16 «poli» turistici, di una serie di immobili da valorizzare. Nel pacchetto ci sono l’ex sede delle Poste di Trieste, la caserma Andria di Brindisi, la ex manifattura tabacchi di Palermo, uno stabile a San Sepolcro, in provincia di Arezzo, alcuni rustici sulle colline di Lerici, vicino La Spezia, le Saline di Volterra e il palazzo Medici Chiarelli in via Giulia, a Roma. Tutta roba della società pubblica Fintecna, erede dell’Iri, che l’aveva in portafoglio inutilizzata. Un’operazione come tante, se non fosse per il suo significato simbolico. Perché è l’atto finale della prima «statalizzazione» che avviene nel nostro Paese dopo un ventennio di privatizzazioni. Con questa manovra la holding del Tesoro, Fintecna, ha infatti soppiantato nel capitale di Italia turismo i privati che sei anni fa ne avevano rilevato il 49%con la prospettiva di comprare tutto. E ora il 100%è nuovamente in mani pubbliche. Un esito che forse non poteva essere diverso ma che deve necessariamente far riflettere. Da troppo tempo il turismo, motore in panne della nostra economia, è afflitto da una specie di male oscuro. Colpa di scelte politiche «scellerate» , come l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri definisce la decisione operata nel 2001 dal centrosinistra di spacchettare le competenze in materia turistica con la riforma del titolo V della costituzione. Ma anche di una classe dirigente oggettivamente inadeguata alle proporzioni della sfida, se si pensa che Silvio Berlusconi dice di voler triplicare il fatturato del nostro turismo portandolo al 20%del Pil, ma intanto si brancola nel buio. Senza risparmiare un ceto manageriale forse non proprio all’altezza, visti alcuni risultati. La Parmatour finita nel gorgo del crac, la Cit affogata in un buco da 535 milioni... Italia turismo nasce nel 2003 da una costola di Sviluppo Italia, mettendo insieme una serie di strutture turistiche rimaste in mani pubbliche, più alcuni ambiziosi progetti, con la motivazione di rilanciare al Sud quell’attività ormai stagnante. Due anni più tardi il 49%passa a trattativa privata nelle mani di una cordata con Ifil, Banca Intesa e Marcegaglia. Prezzo: 76 milioni e rotti, da versare in comodissime rate. Ai privati va inoltre l’opzione per comprare un altro 16%del capitale senza l’obbligo di pagare un premio di maggioranza. Di più: nella pancia della società ci sono 40 milioni di contributi statali per i nuovi investimenti. A dir poco singolare la governance, e non perché alla presidenza, con un emolumento di 200 mila euro annui, venga designato il solito politico nella persona del leghista Dario Fruscio, che lascerà nel 2006 dopo la nomina a senatore. I consiglieri di amministrazione sono addirittura undici, ma dei quali soltanto due di competenza dell’azionista pubblico, che pure ha il 51%del capitale. Con queste premesse, il matrimonio non può certo procedere nel migliore dei modi. Nell’operazione si sente puzza di vecchie abitudini del passato. E i conti sono un disastro. Arrivato a Sviluppo Italia nel 2007, Arcuri fa decadere il consiglio, sterilizza l’opzione dell’acquisto del 16%e avvia le pratiche per l’inevitabile separazione. Il divorzio viene firmato nel 2010: i privati escono recuperando 69,6 milioni. Rispetto a quelli investiti con favorevolissime dilazioni ce ne rimettono circa sette, ma non è una gran perdita in confronto ai risultati. Dalla sua nascita la società non ha mai chiuso un bilancio in utile, accumulando un buco di 15 milioni. Alla cordata subentra dunque Fintecna, inizialmente con propositi bellicosi. Vorrebbe approfittarne per liberarsi di alcuni pesi morti, rifilando alla società turistica di Invitalia immobili per 140 milioni, fra cui un ospedale (!) di Genova. Deve però ridimensionare notevolmente le pretese. Per farla breve, al termine di un’operazione piuttosto complessa Invitalia si ritrova in mano il 58%del capitale mentre il restante 42%va a Fintecna, che ha conferito asset per 59,5 milioni. Tutti immobili, va detto, che per essere impiegati a scopi turistici richiederanno impegnativi investimenti. E adesso? La cessione ai privati viene proiettata su un orizzonte molto più lontano. Nel frattempo lo Stato affiderà la gestione dei suoi villaggi e dei suoi alberghi, con la prospettiva di guadagnare grazie agli affitti e sperando che gli investimenti non divorino tutto il margine, a «operatori professionali» . Meglio se stranieri. Per esempio il Club Mediterranee che già gestisce il villaggio (statale) di Cefalù e in futuro ne gestirà un secondo (sempre statale) a Otranto. Per esempio, gruppi come Marriott, Barcelò e Sol Melià, già attualmente partner di Invitalia. Questa la tesi di Arcuri: «In Italia non ci sono purtroppo molti operatori turistici che abbiano un’ampiezza di vedute competitiva con quella di loro colleghi di altri Paesi. Basta dire che dei 33.500 esercizi alberghieri italiani quelli a cinque stelle sono 320, meno dell’uno per cento. Crediamo davvero di poter attirare con questi numeri i ricchi del mondo? Per non parlare del Sud. Non è un caso se meno del 10 per cento dei nostri flussi turistici scende al di sotto di Roma e se appena il 2%raggiunge regioni meridionali diverse dalla Campania e dalla Sicilia...»
Sergio Rizzo