VITTORIO SERMONTI , Repubblica 12/5/2011, 12 maggio 2011
ORA E SEMPRE VIRGILIO
(Anticipiamo parte della lettura che Vittorio Sermonti, stasera a Perugia, dedica a Virgilio e all´Eneide).
«Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis...» «E già, fugate le stelle, arrossiva l´Aurora, /quando vediamo lontano oscuri colli e, umile / sull´orizzonte, l´Italia. "Italia!" grida Acate per primo, / "Italia!" salutano i nostri con urla di giubilo». Che succede? Succede che nel rosso dell´aurora a migranti stipati sul ponte dei loro barconi appare, affiorando appena dalla superficie dell´acqua, la costa del Salento, piatta: infatti, qualcosa come "piatta" varrà qui l´aggettivo humilis apposto a "Italia" (humilemque videmus Italiam); anche se il nome ripetuto tre volte in due versi, il batticuore furioso con cui la riconosce gente che non l´ha mai vista prima, sembrano dilatare l´indicazione planimetrica alla sacra umiltà della più terrestre, della più terrosa, della più terra-terra... perché no? della più terra-terra delle terre.
Naturalmente - serve dirlo? - i migranti che urlano sono poveracci in fuga dall´antica città di Troia demolita e data alle fiamme dai Greci in capo a dieci anni di assedio: e agli ordini del famoso Enea, dopo uno spossante brancolar per mare alla volta di un approdo oscuramente promesso, hanno appena attraversato il canale di Otranto, facendo vela «di dove la via per l´Italia è un brevissimo tratto di correnti», cioè dalla baia epirota oggi golfo di Valona, Albania (ultima tratta della migrazione... penultima, a dire il vero: l´ultima partirà dalla Tunisia...). E il poeta di cui andiamo parlando è naturalmente il celebre Publio Virgilio Marone; gli esametri letti e tradotti cadono nel III libro della sua celeberrima epopea, chiamata Eneide... e la traduzione l´ho fatta io, naturalmente. (...) Sui criteri che ho adottato basterà enunciarne uno: ho ridotto al minimo l´uso di tutto quel compìto ed elusivo repertorio verbale che si usa soltanto a scuola nelle versioni dal latino: in poche parole, ho semplicemente usato l´italiano che adopero per pensare, e alle volte anche quello che parlo... A questo proposito sarà bene non dimenticare che le grandi traduzioni in versi dei secoli passati (da Annibal Caro a Leopardi) scontavano l´handicap che la fastosa lingua in cui sono scritte non la parlava praticamente nessuno. (...)
E adesso leggiamoci un po´ di quest´Eneide ennesimamente tradotta (ma pur sempre Eneide!). Apriamo pagina al IV libro e leggiamo, per esempio, dal verso 173. Dunque, dopo la tappa nel Salento, Enea ha fatto rotta sul Lazio (la promessa dell´Italia si compirà, appunto, con l´approdo alle foci del Tevere), ma una tempesta bestiale lo ha sbattuto con i poveri avanzi della flotta su una spiaggia della Libia (se per Libia si intendeva allora il Nordafrica, il tratto di costa nordafricana dove Enea è sbattuto oggi sarebbe, appunto, Tunisia). Proprio lì si sono insediati da qualche tempo profughi Fenici (provenienti dal Libano attuale), che stanno edificando sulla sabbia una metropoli minacciosissima (Cartagine). La regina di questi Fenici, o Punici che dir si voglia, è la famosa Didone, vedova stupenda. Ora Venere, mamma divina ma ansiosissima di Enea, per garantirsi che i Fenici trattino bene suo figlio, con la complicità di Cupido (altro suo figlio divino) che si è travestito da Iulo-Ascanio (figlio a sua volta di Enea), ha fatto tanto che Didone supplicasse Enea, bello e sventurato com´è, di raccontarle la caduta di Troia e le successive peripezie per mare; e, mentre lui raccontava, se ne innamorasse perdutamente. Dal canto suo, Giunone, nemica irriducibile dei Troiani, per esuli che siano, pur di stornare Enea dalla missione fatale di sbarcare in Italia e gettare - diciamo così - le premesse per la fondazione di Roma, negozia con la sua nemica Venere un compromesso basato su una circoscritta convergenza di interessi; e le due dive montano una piccola scena di grande commedia... Ma la regina oramai spasima d´amore per Enea; gli eventi precipitano e, sotto un diluvio concordato, i due si congiungono in un coito tellurico; e la Fama divulga la notizia, per tutta l´Africa del nord... Sentiamo.
«E la Fama va per le grandi città della Libia, / sùbito, lei, la Fama, il più fulmineo di tutti i mali; / vive del suo movimento, e andando guadagna forza; / piccola a tutta prima e timida, e già si leva nei venti, / va con i piedi sul suolo e nasconde la testa fra le nuvole [...] / orrido mostro immane, [...] di notte, vola a mezz´aria fra cielo e terra stridendo / nell´ombra, e non chiude occhio alla dolcezza del sonno; / di giorno, si appollaia di guardia al sommo d´un tetto / o d´un´alta torre, e atterrisce grandi città, ostinata / nel divulgare il falso e i suoi veleni non meno del vero. / Euforica, quella volta, assordava la gente di voci / assortite, annunciando, a seconda, l´accaduto e il non-accaduto: / che era arrivato un Enea, nato di sangue troiano, / al quale la bella Didone si compiaceva accoppiarsi; / che si godevan l´inverno, quant´è lungo, in bagordi, / dimentichi dello stato, arresi a una turpe libidine. / Questo diffonde l´infame mettendolo in bocca alla gente»...
Mi domando se qualcuno abbia notato una qualche affinità tra la Fama, creatura semidivina, e la suprema delle divinità di oggi: l´Informazione. Questa Fama, che Virgilio definisce senza peli sulla lingua «malum quo non aliut velocius ullum», «il più fulmineo di tutti i mali», significa il carattere tendenzioso e profanatorio di qualsiasi diffusione di notizie, l´irriducibile alterazione del reale inerente ogni passaggio di informazioni, perché - questo racconta il poeta - divulga indifferentamente verum e fictum, il vero e il falso, o meglio, attivando più inquietanti interferenze di senso, «fatti e non-fatti», letteralmente: facta et infecta, quasi che la stessa trasmissione di fatti li contraffacesse, li inficiasse, li infettasse. (...)
A questo punto si sarebbe tentati di proclamare a cuor leggero l´attualità di Virgilio. E sia! Anche se personalmente non sono così sicuro che la massima benemerenza per un poeta del passato sia quella di essere nostro contemporaneo, quasi che noi fossimo il massimo del massimo. (...) In tutti i casi, l´attualità di Virgilio penso andrebbe misurata sulla sua poesia, non sulle sue opinioni. E non è un´opinione - condivisibile o meno come tutte le opinioni - che il bacino del Mediterraneo sia da sempre tracciato da esuli disperati e braccati alla ricerca di una patria appena abbandonata e perpetuamente promessa, di un´identità profonda che non mette radici se non nel futuro, e non si purifica se non contaminandosi. Infatti la patria, ogni patria è anche una patria futura e una patria perduta, una speranza e un rimpianto, ma è anche - così canta Virgilio e noi seguitiamo a verificare nel presente che ci minaccia - è anche la patria di altri.