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 2011  maggio 13 Venerdì calendario

Ivan, il soldato rosso diventato Kapò nel lager - Questa sentenza di Monaco non può e non deve essere considerata esemplare

Ivan, il soldato rosso diventato Kapò nel lager - Questa sentenza di Monaco non può e non deve essere considerata esemplare. Le sentenze dei tribunali, o sono giuste, oppure devono comunque rispondere a un principio di giustizia; quando al verdetto di un tribunale si pretende di dare una caratterizzazione di esemplarità, attribuendo al caso in giudizio una eccezionalità dettata dalle circostanze storiche o politiche coinvolte, si rischia di modificare in termini punitivi - o, al contrario assolutori - la decisione dei magistrati di interpretare semplicemente la legge e darle forza di sanzione. Questo problema accompagna con evidenza, ormai da un secolo, il corso della giustizia internazionale. E vedere ora nel banco degli imputati un vecchio cadente, spesso portato nell’aula del tribunale steso su una lettiga o in sedia a ruote, riapre la domanda sulle considerazioni che possono far da contorno alla pronuncia d’un verdetto. John Demjanjuk è stato riconosciuto come uno dei guardiani collaborazionisti che portarono alla morte di «almeno 28.000 ebrei» nelle camere a gas. Il suo percorso giudiziario non è stato né facile né lineare, com’è naturale dopo che sono trascorsi quasi 60 anni dalle imputazioni alle quali doveva rispondere. E in questi 60 anni lo hanno giudicato i tribunali israeliani, quelli americani e quelli tedeschi, con un’alternanza di verdetti che talora hanno dato ragione alla sua difesa - di non riconoscersi nei panni del «boia di Sobibor» - ma più spesso hanno valutato come attendibili gli elementi di prova portati a sostegno del voluminoso dossier accusatorio. Nato in Ucraina il 3 aprile 1920 con il nome di Ivan - e forse sarà proprio la comunità ucraina a dargli una stanza dove vivere - Demjanjuk si arruolò con l’Armata Rossa all’inizio degli Anni 40, servì con la divisa di Mosca nella Crimea orientale. Ma quest’uomo che prima del conflitto guidava trattori e autocarri nella campagna sovietica finì quasi subito prigioniero della Wehrmacht nella straordinaria avanzata nazista verso Oriente. Ivan ha sempre sostenuto di aver trascorso l’intero periodo della guerra in campo di concentramento; la sua affermazione era vera, ma andava valutata all’interno d’una divisione di ruoli che assegnava alla sua presenza non il compito di un prigioniero qualsiasi ma piuttosto quello di un Kapò addetto al controllo dei prigionieri con destinazione finale nella camere a gas. «Avrei venduto l’anima per un tozzo di pane», disse una volta in tribunale. Indossò la «divisa» del Kapò, poi tolse pure quella per indossare quella delle SS. È il 1942, c’è un documento ufficiale che fissa in quell’anno l’arruolamento come «volontario straniero ausiliario» delle SS. La sentenza di ieri, nelle parole del giudice che l’ha letta, dice che «l’imputato fu una parte della macchina dello sterminio, si preoccupò che le vittime non avessero possibilità di fuga e finissero nelle camere a gas». Guardandolo negli occhi, ha aggiunto con voce ferma: «A migliaia li spingeste dentro le camere a gas, anche usando la violenza più brutale. Loro, quei disgraziati, tentavano di resistere. Di aprire dall’interno le porte della camere a gas, ma poi con urla strazianti si abbandonavano ai fumi del gas e perdevano la vita». E ha chiuso: «Lei ha svolto un ruolo essenziale nell’annientamento del popolo ebraico». I difensori di Demjanjuk hanno accusato la sentenza di essere un atto di ossequio verso il governo israeliano e quello americano. Già, l’America, che gli diede e poi gli tolse e poi ancora gli conferì e infine gli stracciò sotto gli occhi la cittadinanza. Era arrivato per sfuggire al suo passato, quello del servizio alle SS, nel campo di Chelmno, in Polonia, e poi in Austria. Faceva l’autista nel Sud della Germania, poi volò oltreoceano, destinazione Ohio, Cleveland, l’industria automobilistica, una divisa anche stavolta. Ma da operaio, meccanico in una fabbrica di autovetture. Un americano. Integrato, o forse mimetizzato nell’Ohio operoso dove i cognomi dal suono esotico pullulano, tanto che nulla è straniero, tutto è America. Bastò diventare John, l’americano, anziché Ivan, il russo. Venne naturalizzato dopo un po’, ma nel 1981 la sua cittadinanza fu sospesa, poiché aveva mentito scoprì un giudice - nella domanda di richiesta della cittadinanza sulle sue attività durante la guerra. Tanto bastò per attirare le attenzioni degli israeliani, ne richiesero l’estradizione nel 1983. Due anni dopo era in Israele. Lo processarono. Cinque anni più tardi, Demjanjuk era libero - anche se non «innocente», il giudice israeliano si tenne ben lontano dal pronunciare quella parola. Nel 2002 però tornò ad essere «quello di Sobibor». Cittadinanza Usa revocata, e non per un errore, ma per una tragica verità. Non cercano il «guardiano di Treblinka», ma il «boia di Sobibor». Si può processare, dice la Corte Usa. Non in Ohio però. Nel 2008 il tribunale di Monaco produce abbastanza prove per chiederne la custodia. È l’epilogo. O quasi. Passano 6 mesi. Sulla sedia a rotelle, fragile, malato, lo caricano sull’aereo a Cleveland. I suoi avvocati si appellano ancora a quella carta d’identità che lo ha inguaiato la prima volta in Israele. «È falsa», insorgono. Urla nel silenzio. Per il «boia di Sobibor», il russo diventato SS, la ruota ha smesso di girare.