Gian Antonio Stella, L’Europeo maggio 2011, 12 maggio 2011
1991. LA LEGA NON SPEZZO’ L’ITALIA
Franco Rocchetta, che fu presidente della Lega Nord prima di esserne espulso, giura di aver parlato per la prima volta della Liga nella chiesa di Santa Maria di Danzica, nell’agosto del 1968, tre giorni prima di scendere verso sud in Cecoslovacchia (citiamo un suo memoriale, tra virgolette) «avendo al fianco gli interminabili convogli dell’invasione, carri armati e salmerie del Patto di Varsavia». Una genesi mistica e segnata dal miracolo: parlò in polacco senza sapere il polacco.
Achille Tramami, che fu parlamentare della Lega Nord prima di esserne espulso, assicura che tutto nacque al circolo Bertrand Russell di Padova: «Era inverno, l’inverno tra il 1978 e il 1979, eravamo giovani e senza una lira».
Cantavano vecchie canzoni venete, mandavano a memoria scanzonate poesie di Giorgio Baffo («Senza starve a cantar d’arme e d’amor / senza dirve de guerre e de fracassi / per sodisfar el genio e un certo umor / veggio cantarve de la Mona i spassi»), si piccavano di eliminare il più possibile gli italianismi per recuperare l’antica lingua dei padri, sia pure con i problemi posti dall’estrema varietà dei diversi dialetti veneti che sarebbe stata dimostrata dallo studioso Manlio Cortelazzo con l’elencazione, per fare un solo esempio, di 58 modi diversi per chiamare la coccinella, nella sola provincia di Verona.
IL PARTITO PIÙ VECCHIO E PIÙ DI GOVERNO D’ITALIA
Claudio Pizzati, che fu il primo consigliere comunale in assoluto eletto sotto il simbolo del leone di San Marco (a Marostica) prima di essere espulso, garantisce che la genesi furono le amministrative dell’8 giugno 1980, quando la Liga, fondata ufficialmente il 16 gennaio 1980 nello studio del notaio Giovan Battista Todeschini di Padova, riuscì a presentare per la prima volta il proprio simbolo sulle liste delle provinciali di Vicenza e delle comunali, appunto, di Marostica e Valdagno. I leghisti lombardi individuano la loro Betlemme («La città culla», la chiamerà il Senatur) a Varese dove, nelle elezioni amministrative del 26-27 giugno 1983, si candidò nella Lista per Trieste (cioè "il Melone" che si presentava in tutta Italia puntando a fare il quorum) Umberto Bossi: 157 preferenze. La Padania sposta i natali più avanti, al 12 aprile 1984, giorno di fondazione nello studio del notaio Franca Bellorini, di Varese, della Lega autonomista lombarda. Tanto da sparare nell’aprile 2009 il titolone: «Buon compleanno, Lega lombarda».
Con un articolo che spiegava: «La Lega Nord è al tempo stesso il più "giovane" e il più "antico" movimento politico del Paese. Con i suoi 25 anni di storia, festeggiati proprio l’altro ieri, il partito fondato da Umberto Bossi rimane il soggetto più dinamico e innovativo fra le forze che competono alle urne in Italia. E, al tempo stesso, è il simbolo che vanta più anni di presenza sulle schede elettorali. Tutti gli altri sono scomparsi, mutati, trasformati...».
Fatto sta che, a parte quello radicale che partecipa alla vita politica dal 1955, quando Luca Zaia e Roberto Calderoli e Roberto Cota dovevano ancora venire al mondo, ma oggi è in Parlamento nel gruppo Pd, quello della Svp o del Pri che stanno nel gruppo misto o comunque all’interno di contenitori più grandi, la Lega Nord è oggi il partito più vecchio presente alla Camera e al Senato.
Sono spariti la DC, il Pci, il Psi, il Msi, il Psdi e poi il Pds, i Ds, il Ppi e perfino Alleanza nazionale e Forza Italia... Sono evaporati Democrazia proletaria e il Pdup e la Rete e la Nuova sinistra unita e liste come Federalismo - Pensionati uomini vivi e la Lega alpina lumbarda e l’Alleanza democratica e il Patto Segni e la Lega d’azione meridionale e il Girasole e la Lista Emma Bonino e decine e decine di partitini spuntati dal nulla, durati un nonnulla ed eclissati nel nulla.
Ma la Lega è lì. Presente. Fortissima al governo, dove secondo gli avversari detiene la golden share della linea politica oltre ad alcuni ministeri chiave. Forte nelle regioni del Nord, dove ha due governatori al comando in Veneto e in Piemonte. Forte nelle province dove ha decine di presidenti. Forte nei comuni con centinaia di sindaci.
Certo, ha dei problemi interni. Rivelati soprattutto dalle polemiche intorno alla gestione della crisi immigratoria seguita alle rivolte contro le dittature nel mondo. Basti risentire le telefonate a radio Padania traboccanti di razzismo e incapaci di capire la "cautela" che la Lega è virtuosamente costretta ad avere per il solo fatto di far parte di un governo europeo. In particolare va risentita la telefonata del prosindaco di Treviso (formalmente: in realtà il sindaco vero è lui, da anni) Giancarlo Gentilini: «Popolo leghista, popolo padano, un saluto caro dallo sceriffo d’Italia numero uno!». Lui, rivendica, non ha mai fatto distinzioni tra profughi per motivi politici o religiosi e immigrati per lavoro. Che gli frega se magari si tratta di sudanesi cattolici in fuga dagli integralisti islamici? «Sono tutti clandestini. E la battaglia della Lega è stata sempre quella: fuori dalle balle i clandestini». Quindi? «Tutti quanti si meravigliano perché ci sia stata questa ondata di buonismo quando noi siamo dei leghisti rivoluzionari che hanno uno spirito combattivo. Tanta gente mi ferma e mi dice: "Ma come, signor sindaco, abbiamo già tutta questa paccottiglia di delinquenti che girano di giorno e di notte, rapinano strade intere, case dappertutto... Io ho sempre sostenuto da dieci anni che ci vuole il blocco navale. (...) Qui c’è sempre stato un permissivismo, una tolleranza, una Caritas che non è la Caritas cristiana... Ci siamo riempiti di puttane da tutte le parti, delinquenti da tutte le parti, droga da tutte le parti. Io non tollero queste cose. Perciò a Maroni dico: per l’amor di Dio non continuare così. (...) Bossi ha detto "fuori dalle balle" ma "fuori dalle balle" non va d’accordo coi permessi temporanei. (...) Questa pantomima dei profughi, dei cacciati... Facciamo ridere i sassi. Sono tutti clandestini».
E ancora: «Ho scritto a Maroni, ho scritto a Bossi. Io chiedo a nome del mio popolo il blocco navale. È l’unico toccasana. (...) Io esigo in nome della Lega un cambiamento di rotta. Bisogna avere il coraggio di fermare quella gente. (...) Io voglio l’emigrazione come quella della mia gente, dei miei nonni, dei miei bisnonni, i quali dovevano entrare e fare le quarantene davanti alle coste degli Stati Uniti. (...) Dobbiamo tornare un movimento di lotta, di battaglia ma anche di vittoria. (...) C’è troppo buonismo, c’è troppa tolleranza, c’è troppo permissivismo... Io dico Maroni, Calderoli, Bossi: ragazzi, io ho bisogno di combattenti, di legionari, che difendono il popolo veneto, il popolo padano...».
RIMPIANTO DA LEGIONARI DI TROPPO SUCCESSO
È qui, la grande contraddizione della Lega. Nel bisogno di stare dentro al governo, in posti di comando, a Roma, per dare concretezza ad alcune battaglie, a costo di mettersi d’accordo spregiudicatamente con i peggiori padroni delle tessere e delle clientele del peggior Mezzogiorno legato all’assistenzialismo.
E insieme nel continuo rimpianto per le "mani libere", rimpianto per la politica scorretta più volte rivendicata da Umberto Bossi (si pensi ai bidoni che si vanta di aver tirato durante questa o quella trattativa per elezione al Quirinale), rimpianto per i bei tempi andati quando si poteva giocare alla rivoluzione e maledire i "terroni" e dire tutto quello che passava per la testa senza che ne nascessero problemi con l’Europa, la Chiesa, le convenzioni internazionali. Sono passati tre decenni, dalla congiunzione fra le due anime nate separatamente del movimento, la veneta e la lombarda. Sembrano tre secoli.
Torniamo a quell’alba degli anni Ottanta. I leghisti veneti fanno proselitismo scrivendo sui cavalcavia slogan come "Roma ladrona" o "Forza Etna". Franco Rocchetta prepara per il Gazzettino una chilometrica storia di 60 puntate sui veneti. Achille Tramarin insiste con i seminali e Valerio Costenaro si dimette per fondare Dexmisio (sveglia!): «Volevo che la Liga non facesse politica e restasse un’associazione culturale trasversale a tutti i partiti».
Parallelamente, dall’altra parte delle Prealpi, nel Varesotto, fanno lo stesso Giuseppe Leoni, Roberto Maroni, Dino Daverio, Emilio Sogliaghi e Umberto Bossi. Quest’ultimo racconterà nell’autobiografia Vento dal Nord scritta con Daniele Vimercati: «Una notte rischiai la pelle. Ero in autostrada, con Roberto Maroni, per riempire di scritte i muri dei cavalcavia. (...) Il sistema era questo: Maroni guidava l’auto, mi scaricava con vernice e pennelli, proseguiva e faceva inversione al casello successivo. Per poi tornare a prelevarmi. Così facendo eravamo sicuri di non essere identificati. (...) Quella volta arrivò una pattuglia, io me ne accorsi con un attimo di ritardo e quando scavalcai la rete mi avevano già urlato: "Fermo o sparo". (...) Quel- li spararono davvero. Ad altezza d’uomo. Sentii i proiettili fischiare sopra la mia testa. Gli agenti rimasero un attimo interdetti, si resero conto di aver fatto una cazzata, si chie- sero: "L’abbiamo preso?". E se ne andarono. (...) Poco dopo arrivò Maroni, non mi vide e si preoccupò. Sbucai dal mio nascondiglio solo dopo mezz’ora, tutto imbrattato di vernice perché m’ero rovesciato addosso il secchio durante la fuga. Povero Maroni, come gli conciai i sedili della macchina nuova!». Come avrebbero potuto immaginare, allora, che uno sarebbe diventato ministro per le riforme e Duce indiscusso dei padani e l’altro ministro degli Interni?
Certo è che l’anno della svolta, anche se l’unione formale dei vari monumenti autonomistici e la fondazione della Lega Nord dal notaio Giovanni Battista Anselmo di Bergamo è del 4 dicembre 1989, è il 1991. L’8 febbraio a Pieve Emanuele c’è primo congresso della Lega Nord, Bossi presenta ufficialmente per la prima volta la tesi delle Tre repubbliche («II Nord o imporrà la federazione o se ne andrà: Roma è avvertita») e lancia l’idea destinata alla celebrità: «La Lega ce l’ha durooo!». Tre mesi dopo, il 16 maggio, a Pontida, viene proclamata la "Repubblica del Nord". Il 13 giugno, per la prima volta. Bossi parla di due progetti: portare la "capitale" della Padania a Mantova e istituire un governo-ombra leghista. Anzi: un "governo sole".
È una primavera speciale, quella del 1991. Dove marciano parallelamente due condottieri decisi a recuperare nel passato le radici di un nuovo patriottismo nazionalista nella scia di una storia lunga e antichissima. Storia che, se vogliamo, può essere rintracciata nelle Elleniche di Senofonte:
«Comparve poi un certo Licomede di Mantinea (...) riempì di orgoglio gli Arcadi, affermando che erano gli unici a poter considerare il Peloponneso la loro patria perché ne erano gli unici abitanti autoctoni e che la popolazione arcadica era la più numerosa e la più forte della Grecia. Diceva che erano anche i più coraggiosi, come testimoniava il fatto che, ogni volta che qualcuno aveva bisogno di rinforzi, preferiva gli Arcadi a chiunque altro». Era il 364 avanti Cristo. E possiamo immaginarceli, gli abitanti di quella regione centrale del Peloponneso, eccitati nel loro orgoglio autoctono. L’Arcadia! Il sacro suolo arcade! La terra santa e benedetta adagiata ai piedi del sacro monte Liceo dove era nato il culto di Zeus!
Umberto Bossi, del tutto indifferente al fatto che si trattasse di miti risorgimentali e poi fascisti (che non a caso tenevano una radunata annuale lì, a Pontida), metteva a punto tutta la ricostruzione dell’Arcadia leghista; Alberto da Giussano, il Carroccio, il sacro giuramento, la battaglia di Legnano... Slobodan Milosevic eccitava i serbi nel nome di Marko Kraljevic, l’eroe popolare che nella battaglia della Piana dei Merli a Kosovo Polje contro l’odiato invasore ottomano «con una mazza uccise cento turchi!». E se di qua, in Italia, il Senatur scaldava gli animi dei suoi fedeli spiegando loro che i padani erano il meglio del meglio (il "perfezionamento" del concetto sarebbe arrivato al congresso al Palavobis del 15 febbraio 1997: «Nei prossimi dieci anni vogliono portare in Padania 13 o 15 milioni di immigrati, per tenere nella colonia romano-congolese questa maledetta razza padana, razza pura, razza eletta»), di là Radovan Karadzic, un medico di seconda fila di origine montenegrina, teorizzava che i serbi fossero una razza superiore basandosi sul fatto "scientifico" che avrebbero «il femore più lungo d’Europa».
QUELLE SOMIGLIANZE CON I NAZIONALISMI BALCANICI
Come sia finita in Jugoslavia si sa: con le teste mozzate a Srebrenica, le cataste di cadaveri a Vukovar, il bombardamento del prezioso cuore storico di Ragusa («La faremo più bella e più antica di prima», rideva il generale Ratko Miadic), lo spaventoso e interminabile assedio di Sarajevo dove le artiglierie cannoneggiarono accanitamente la biblioteca per annientare quei libri che dimostravano come ebrei, serbi, croati e bosniaci avessero vissuto insieme, con reciproco arricchimento culturale, per secoli. In Italia, grazie a Dio, è andata in maniera diversa. E va dato atto a Umberto Bossi, almeno su questo versante, di avere spesso predicato male (basti ricordare le sparate sui «300mila bergamaschi pronti a imbracciare le armi» o quella sui mitragliatori: «Stiamo oliando i kalashnikov»), ma razzolato meglio. Come meglio hanno razzolato, anche nei confronti degli extracomunitari, tanti sindaci leghisti che a parole appaiono sempre sul filo del razzismo più inaccettabile.
Quanto scoppiò in Jugoslavia vent’anni fa, tuttavia, deve restare un monito per quelli come Giancarlo Gentilini: le parole pesano. Pesano maledettamente. Ricordava lo scrittore Fulvio Tomizza, che nel giro di una manciata di anni vide andare in pezzi la pacifica convivenza tra slavi e italiani che da sempre caratterizzava l’Istria e detestava con tutte le sue forze il nazionalismo e i nazionalisti: «Ah, l’odio! Devono ancora inventarlo un lievito che si gonfi come si gonfia l’odio».