Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 12/05/2011, 12 maggio 2011
LATINA, LO SCRITTORE E IL SENATORE LOTTANO A DISTANZA NEL FORTINO DELLA DESTRA
«Meno Fondi, più Latina» . C’è un solo posto al mondo dove possono affiggere (e capire) un manifesto elettorale così: nella vecchia Littoria mussoliniana che, caduto il Duce, assunse nel 1946 il nome attuale. Solo lì la parola Fondi perde il sonante significato di soldi, finanziamenti, erogazioni che fa gola a ogni amministrazione pubblica e, presa la lettera iniziale maiuscola, assume un senso negativo. Perché Fondi, a Latina, ricorda l’imperio del nuovo Duce del Lazio meridionale, il senatore Claudio Fazzone, già capo scorta dell’allora presidente del Senato Nicola Mancino, già attivista berlusconiano della prima ora, già presidente forzista del consiglio regionale. Certo, Fazzone è un Duce più capelluto e dotato di meno poteri di quello che promosse la bonifica dell’Agro Pontino e offrì la terra strappata alle paludi a contadini veneti e friulani. Nella vecchia e destrorsa Littoria, però, da anni, comanda lui. Va da sé che a Latina possono pure rassegnarsi allo strapotere scontato di Roma, ma fanno sempre più fatica, dicono amici e nemici, a reggere lo strapotere del plenipotenziario pidiellino che comanda tutti dalla sua reggia agreste di Fondi. Un «fabbricato rurale» con otto camere e cinque bagni e cucine e garage e stanze e ripostigli vari e un salotto da marajà («la sala del trono» , ridono gli avversari) di 130 metri quadri. Non bastasse, la sudditanza si è fatta insopportabile dopo il rapporto segreto al Viminale sulla cittadina «fazzoniana» firmato nel settembre di due anni fa dal prefetto Bruno Frattasi che denunciava l’«inosservanza sistematica della normativa antimafia del comune» e chiedeva di sciogliere il consiglio di Fondi perché erano «emerse chiaramente le connessioni fra la famiglia di Tripodo Domenico — boss tra i boss napoletani in contatto coi Casalesi, con la ’ndrangheta, con figure apicali di Cosa nostra— e soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del comune» . Scioglimento evitato, dopo polemiche incandescenti, grazie alle dimissioni di massa dei consiglieri pidiellini un attimo prima che il governo ne discutesse. Fatto sta che, sullo sfondo delle elezioni comunali a Latina, c’è sempre lui: Fazzone. Lui, accusa Claudio Moscardelli, il candidato cattolico di centro-sinistra autore dei manifesti citati nell’incipit, «ha deciso le liste pidielline a partire dal capolista» . Lui è il punto di riferimento fondamentale ma ingombrante da cui cerca di sganciarsi il candidato berlusconiano ex An Giovanni Di Giorgi, il quale non perde occasione di sottolineare che lui rappresenta «la discontinuità» nonostante gli ruotino intorno tanti proconsoli delle ultime giunte: «La squadra è la stessa? Anche nelle classi scolastiche gli alunni spesso sono gli stessi. Ma se cambia la maestra, cambia tutto» . E ancora lui, il senatore di Fondi, è al centro delle invettive di Antonio Pennacchi, lo scrittore fascio-comunista che dopo aver vinto il premio Strega raccontando in «Canale Mussolini» l’epopea della colonizzazione dell’agro pontino, presenta («guai a chi dice che è di destra» ) una «lista Pennacchi per Latina» che appoggia l’avvocato Filippo Cosignani, ex An, assieme a un gruppo di intellettuali e esponenti di spicco di Futuro e Libertà, da Fabio Granata a Claudio Barbaro, dallo storico Franco Cardini ai giornalisti Luciano Lanna e Filippo Rossi. Pennacchi dice che lui manco lo conosce, Fazzone: «E chi lo ha mai visto? Il punto è che noi di Latina non possiamo accettare un sindaco che ha baciato l’anello imperiale al signore di Fondi» . Certo, riconosce che, prima di essere additata come un luogo di pericolose infiltrazioni della malavita proprio per il suo grande e ricco mercato ortofrutticolo, «Fondi ha avuto una storia straordinaria. Di nobili lotte politiche e sindacali» . Ma Fazzone «non può imporci lui la guida del Comune. Vuole fare il sindaco di Latina? Venga, si candidi, ci metta la faccia e prenda i voti se ci riesce. Sennò se ne andasse pure affanc...» . È furibondo, lo scrittore, con la destra che a Latina, dopo la lunga stagione diccì, riscoprì già nel 1993 col sindaco missino Aimone Finestra (podestà, diceva lui) la sua anima nostalgica. Era un fortino, Latina, per la destra. Minato anno dopo anno da un’amministrazione sciatta, dai rinvii di opere promesse come il porto turistico e un nuovo collegamento con Roma più veloce e meno pericoloso della Pontina e dell’Appia, dall’incapacità di affrontare la crisi e le progressive chiusure di tante imprese aperte ai tempi della Cassa del Mezzogiorno. Ma soprattutto dalle liti intestine. Micidiali. Insanabili. Sfociate nella clamorosa scenetta mandata in onda da Striscia la notizia dopo la vittoria alle Regionali di Renata Polverini. Ricordate? Sotto le telecamere, sul palco del trionfo, la neo governatrice laziale fu festeggiata dal sindaco latinense Vincenzo Zaccheo che, entusiasta, si abbandonò a dirle, secondo il labiale decifrato dagli esperti di Antonio Ricci sia pure contestato dal protagonista: «Ricordati delle mie figlie» . Quella che pagò cara, però, fu l’altra frase intercettata e stavolta confermata: «Non appaltare a Fazzone» . Due giorni dopo era a spasso. Da allora le fratture interne, che già erano emerse, si sono moltiplicate mandando in pezzi quel quadro di compattezza che sta tanto a cuore a Silvio Berlusconi. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: 13 candidati a sindaco per metà destrorsi, 26 liste e 785 candidati. Il tutto in un casino tale che, come ha segnalato Daniele Vicario sulla prima pagina de «La provincia» (uno dei tre quotidiani che si spartiscono il mercato locale con i "dorsi"del Messaggero e del Tempo), c’è stato perfino un candidato che, certo del proprio peso personale, prima ancora che venissero definiti gli aspiranti sindaci ha fatto dei manifesti con scritto: «Vota Ivano di Matteo, assessore» . Come se avesse già in tasca una delega... Finalmente uno che si sente sicuro, hanno riso i latinensi. Nel caos generale, infatti, non si sarebbe azzardato nei pronostici neppure il polpo Paul.
Gian Antonio Stella