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 2011  maggio 10 Martedì calendario

PER QUEI GIUDICI MA NON SOLO

Non si tratta di avere la bava alla bocca. Ma di raccontare la storia di questo Paese. Le lacrime dei familiari di Falco­ne, Borsellino, dei tanti, trop­pi giudici che hanno perso la vita per non perdere la digni­tà. Le lacrime, il carcere, qualche volta la morte di chi era dalla parte sbagliata o for­se no, era dalla parte della leg­ge, ma è stato travolto e an­nientato dall’apparato giudi­ziario.
Il primo caso, il più vecchio di questa Spoon River, è quel­lo di Enzo Tortora. Lo prese­ro il 17 giugno 1983 insieme ad altre 855 persone in una retata anticamorra ordinata dalla procura di Napoli. Il presentatore televisivo rima­se due anni detenuto, fra car­cere e detenzione domicilia­re, poi fu condannato a 10 an­ni per associazione camorristica e spaccio di stupefacenti. Lui continuava a proclamarsi innocente, i Pm non gli credettero. Presero co­me oro colato, i pm e i giudici di primo grado, le farneticanti di­chiarazioni dei pentiti. Poi in ap­pello, la verità salta fuori e nella sentenza si legge: «Si è trattato del nulla, del nulla più becero, più improfessionale, più sprov­veduto, più tendenzioso».Il nul­la, il nulla che può distruggere una carriera e uccidere un uo­mo. La riparazione arriva tardi. Tortora si ammala e muore di cancro il 18 maggio ’88.
Le sentenze, però, cambiano la vita. Come gli avvisi di garan­zia. All’epoca di Tangentopoli, poi,l’avviso di garanzia rappre­senta la morte civile. I Pm del Pool hanno sempre risposto al­le critiche con altre inchieste. Sergio Moroni, deputato socia­­lista, si spara un colpo di fucile dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia per le tangenti. La sua non è una posizione grave, ma in quei giorni nessuno distin­gue. L’avviso di garanzia è un er­gastolo sociale e il parlamenta­re toglie il disturbo. Prima scri­ve una lettera a Napolitano: «Non mi è estranea la convin­zione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pu­lizia ». Parole che non elimina­no la responsabilità penale, ma che indicano il contesto in cui è maturata la cosiddetta rivolu­zione italiana. Parole che la fi­glia Chiara, oggi parlamentare di Fli, interpreta così: «I magi­s­trati hanno colpito in modo ab­bastanza indirizzato. Tutto il Psi è finito sotto indagine. Ho il dubbio che ci sia stato un con­nubio fra una certa parte politi­ca e la magistratura».
Un pezzo della vecchia classe dirigente è stato spazzato via, in­sieme al pentapartito, il vec­chio Pci è rimasto in piedi. Un miracolo? È giustizia quella che colpisce inesorabilmente gli uni e salva gli altri? Certo, quan­do si spara, Moroni non vede vie d’uscita. Come non le vede l’ex presidente dell’Eni Gabrie­le Cagliari. È l’estate del ’93, l’estate delle tricoteuse. Caglia­ri infila la testa in un sacchetto di plastica e si uccide. In una cel­la di San Vittore, il carcere che aveva definito con un’immagi­ne vagamente dantesca «il cani­le ». La procura di Brescia apre un fascicolo: il pm Fabio De Pa­squale avrebbe promesso la li­bertà a Cagliari, ma poi sarebbe andato in vacanza. De Pasqua­le viene prosciolto, gli amici del manager continuano pensare che sia stato ucciso. Le polemi­che non risolvono il problema. Certo, Cagliari è stato schiaccia­to dall’apparato.
La giustizia è un potere. In quegli anni è il potere. Giudizia­rio, ma anche politico. Morale. Quasi teologico. Molti non reg­gono. Luigi Lombardini, magi­strato, viene interrogato da uno squadrone di colleghi arrivati da Palermo e guidati da Gian­carlo Caselli. È l’11 agosto ’98 e Lombardini è indagato per estorsione aggravata in relazio­ne al sequestro Melis. Finito lo sfiancante confronto con i pm siciliani, Lombardini si allonta­na un attimo e si spara. È anche lui una vittima della giustizia? I pm di Palermo rispondono con la solita litania: «Abbiamo solo fatto il nostro dovere».Ma il pro­curatore generale di Cagliari Francesco Pintus detta dichia­razioni di fuoco: «Sono avvilito, disgustato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Il dottor Lo­m­bardini era un buon magistrato ed è stato massacrato». Un ne­crologio durissimo che provo­ca reazioni indignate, querele, un cortocircuito giudiziario.
Un dato è sicuro. Le vittime di una giustizia distorta quasi mai sono riconosciute come tali. C’è sempre una spiegazione, una causa civile a difendere l’onore di quella toga. Tutto si mette a posto,anche se c’è una croce in più sulla collina di Spo­on River. Perché nel marzo ’95 si suicida il maresciallo Antoni­no Lombardo? Lombardo co­manda la stazione dei carabi­nieri di Terrasini, è un uomo im­­portante per l’Arma, ha nelle mani un compito delicatissi­mo: convincere il boss Gaetano Badalamenti, in cella negli Usa, a collaborare. Ma il 23 febbraio ’95, nel corso della trasmissio­ne di Michele Santoro Tempo reale , il sindaco di Palermo Leo­l­uca Orlando e quello di Terrasi­ni Manlio Mele, pure lui della Rete, puntano il dito contro il sottufficiale: è colluso con Cosa nostra. Lombardo si sente dele­­gittimato, abbandonato, forse accerchiato anche dalla magi­stratura. Che ha trovato il suo megafono televisivo. È impossi­bile resistere. E Lombardo ri­nuncia alla lotta. Lotta impari, perché 99 volte su 100 è Davide, con la sua piccola fionda, a soc­combere contro lo strapotere di Golia.
Calogero Mannino viene ar­restato il 13 febbraio 1995 per il più classico e impalpabile dei reati siciliani: il concorso ester­no in associazione mafiosa. Lo scagionano a gennaio 2010, do­po 15 anni e cinque processi. La Corte d’appello di Palermo chiude il lunghissimo ping pong: «Non sono state acquisi­te prov­e certe né concretamen­te apprezzabili sul presunto so­stegno politico elettorale che Cosa nostra avrebbe assicurato all’imputato». Fine.
La fine che spesso arriva trop­po tardi. Come per i coniugi Co­vezzi, genitori di quattro figli in un paese della Bassa modene­se. La polizia porta via i bambi­ni il 12 novembre ’ 98, poi arriva una condanna pesantissima per pedofilia. L’anno scorso, fi­nalmente, l’assoluzione. Ma è troppo tardi. Quei ragazzi sono cresciuti, sono grandi, hanno rinnegato papà e mamma. Arri­va tardi anche la riabilitazione per don Giorgio Govoni, prete e amico dei Covezzi, infilato nel­la stessa storia. Lo condannava­no in primo grado, muore d’in­farto alla vigilia del verdetto d’appello.Che riconosce la sua innocenza quando ormai non serve più. Un’altra croce sulla stessa collina. Altri sono stati più fortunati. Daniele Barillà ha portato sulle spalle 7 anni e mez­zo di carcere, poi gli hanno det­to che si erano sbagliati. Non era lui il corriere della droga. Og­gi è libero. Come Vincenzo Lo­digiani, finito dentro Mani puli­te, bersagliato 63 volte e 63 volte assolto. Un record di cui certo non va fiero.