Jacopo Arbarello, il Riformista 12/5/2011, 12 maggio 2011
NELL’INFERNO DI MISURATA (1 - CONTINUA)
Misurata. La terza città della Libia, a 200 chilometri da Tripoli, era fino a pochi mesi fa un fiorente centro commerciale. L’economia tirava forte a Misurata, tanto da attrarre immigrati da tutto il mondo africano. Adesso la città è un cumulo di macerie e di distruzione. I due mesi di assedio da parte dell’esercito di Gheddafi l’hanno ferita a morte, perché i bombardamenti sono stati incessanti e hanno colpito i diversi quartieri dove i ribelli costruivano le proprie trincee. Qui la guerra è stata violenta e costante, più che in tutte le altre città della Libia. Solo nelle ultime ore sembra essersi aperta una speranza di tregua, con i ribelli che hanno annunciato importati conquiste, tra cui l’aeroporto alle porte della città.
Il bilancio dei morti di questi due mesi di battaglia è ignoto, anche perché la città non è stata finora accessibile se non via mare, e solo quando il porto non è finito sotto il fuoco delle bombe. Fonti indipendenti parlano di circa 1000 morti, ma per i ribelli le vittime sarebbero molte di più.
Molti dei morti sono civili, semplici abitanti trovatisi intrappolati dove non dovevano essere. Come è accaduto un venerdì di qualche settimana fa, quando un razzo piombò proprio all’ingresso della moschea, nel momento in cui i fedeli stavano uscendo dopo la preghiera. E morirono almeno in dieci.
Quando si parla di bombardamenti bisogna aver chiaro di cosa si tratta. I razzi in dotazione dell’esercito di Gheddafi sono potenti e distruttivi, come i Grad di fabbricazione russa, ma non hanno alcuna possibilità di essere precisi. Così se si decide di colpire il porto o un altro obiettivo si orienta il fuoco in quella direzione, ma poi si colpisce a casaccio.
Attualmente, stando a quanto dicono i ribelli, le forze di Gheddafi sarebbero arretrate fino ai quartieri della periferia ovest e anche oltre. L’aeroporto per il quale si è combattuto tanto a lungo sarebbe finalmente nelle mani dei rivoltosi. E si tratterebbe di una conquista strategica fondamentale. Ma già due volte i ribelli hanno cantato vittoria salvo poi ritrovarsi sotto un fuoco ancora più violento entro poche ore.
L’assedio è durato così a lungo per una serie di ragioni. Innanzitutto la conformazione della città, molto complicata perché grande e ramificata (Misurata aveva mezzo milione di abitanti) e poi il buon posizionamento dei soldati di Gheddafi, che hanno mimetizzato i propri mezzi all’interno di quartieri residenziali, rendendo impossibili i bombardamenti della Nato. L’esercito è ben armato e colpisce da lontano, spesso senza criterio: zone residenziali, ospedali, il porto dove arrivavano i soccorsi. I cecchini poi, si sono appostati sui tetti più alti, e per settimane hanno seminato il panico uccidendo tutti quelli che vedevano.
Il dramma di Misurata è raccontato in migliaia di video che girano su Internet, i giovani ribelli hanno anche aperto una sezione su youtube, e in quelli che i profughi in fuga dalla città ti fanno vedere affinché il mondo conosca l’orrore di cui loro sono stati testimoni oculari.
Quei video sono quanto di più crudo la guerra in Libia abbia prodotto. Si vedono famiglie sterminate e fatte a brandelli dai razzi dell’esercito di Gheddafi. Si vedono bambini feriti e uccisi, abbandonati senza più genitori. In uno c’è un ragazzino di 7 o 8 anni che racconta di un papà cattivo che tira le bombe e uccide gli altri papà. Dice che quello che succede è brutto e chi lo fa è cattivo. Parla di Gheddafi.
Anche questo fa parte della propaganda di guerra dei ribelli che si organizzano come possono. Ma le immagini sono vere. I videofonini non lasciano scampo, e documentano la violenza, sui prigionieri, sui nemici, sui civili. Si vedono i mercenari di Gheddafi, africani in tuta mimetica, appostati sui tetti a fare da cecchini, a ridere e scherzare.
E si vede la loro vita quotidiana: un agnello da spolpare appeso al muro di una terrazza, a due passi un piccolo braciere dove ardere la carne. Per il resto giornate passate a sparare a tutto quello che passa. Alcuni cittadini di Misurata scappati a Bengasi hanno riconosciuto nei video le proprie case. Quando si sono accorti che proprio lì si erano appostati i cecchini hanno scritto al Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi affinché desse il permesso alla Nato di bombardarle. Meglio una casa distrutta che prestarla ai cecchini come postazione di morte.
Il video più sconvolgente ce lo fa vedere un medico, Abdallah Mahdi, 26 anni, che lavora all’ospedale Shade di Tripoli Street. La strada dove i combattimenti sono stati più feroci, quella dell’uccisione dei due giornalisti anglosassoni. Dove ogni edificio è un colabrodo di bombe e proiettili. Anche l’ospedale è stato bombardato, e il reparto pediatrico e la maternità devastate.
Un razzo ha colpito la stanza delle incubatrici, dove erano in cura due neonati, uno addirittura prematuro. Sono rimasti ore e ore abbandonati, poi qualche anima pia, delle donne, sono andati a soccorerli e sono riuscite a salvarli. Ad altri bimbi non è andata così bene, e Abdallah ha i video che lo testimoniano. Ma ha anche poco tempo.
Abdallah è arrivato a Bengasi per accompagnare i feriti più gravi, alcuni sono arrivati in aereo fino a Roma per essere curati. Ma deve riprendere la prima nave per tornare a Misurata. Lì c’è bisogno di lui e i giovani non possono tirarsi indietro. O combattono o danno una mano, come fa lui, per salvare vite umane.
Ci sono poi i racconti dei profughi, quelli soccorsi dalle navi umanitarie che quando possono fanno la spola tra Bengasi e Misurata. Portano cibo e medicine. Ogni tanto anche armi e ribelli di supporto. Sono già più di 7.000 i migranti stranieri che lavoravano a Misurata e che sono riusciti a scappare salendo sulle navi. Sono quasi tutti africani, adesso ammassati in un campo profughi della Mezzaluna rossa alle porte di Bengasi. Vengono dal Chad, dal Niger, dal Mali, dal Sudan, dalla Somalia.
A Misurata avevano un lavoro e una vita, adesso saranno accompagnati verso qualche frontiera e dovranno ricostruirsi una vita. Hanno passato settimane nel porto, sotto le bombe dell’esercito di Gheddafi, spesso senza mangiare né bere per giorni. Raccontano di aver avuto tanta paura, e di bombe che sembravano voler distruggere tutta la città. Loro con questa guerra non c’entrano, ma ci sono finiti in mezzo.
Da Misurata però scappano anche i libici, soprattutto donne, bambini e anziani. Il loro destino è più dolce perché sono ospitati da parenti o amici, anche se le case sono troppo piccole per contenerli. Dove siamo stati noi c’erano 17 famiglie, un totale di 60 persone, in poche stanze.
I maschi che parlavano raccontavano di violenze e di storie al limite dell’incredibile. Storie di guerra e di assedio. Mohammed Al Fathi e il fratello Ahmed hanno solo 18 e 19 anni. Hanno accompagnato la mamma, i nonni e i fratelli a Bengasi e anche loro stanno per ripartire. Tornano a combattere e a difendere la loro città. E ci dicono che solo nella loro famiglia i drammi accumulati in queste poche settimane sono tantissimi.
La mamma e la zia sono state ferite in un’incursione dei soldati lealisti direttamente in casa. Il cugino ha passato due giorni sotterrato sotto a un mucchio di pietre senza bere né mangiare perché si è trovato circondato dai soldati nemici. Poi si è messo in salvo. Lo zio è stato catturato insieme ai due figli che neanche camminavano. E’ stato liberato solo perché ha detto di essere forestiero. Al ritorno ha raccontato alla famiglia cosa accade ai prigionieri. I battaglioni di Gheddafi avrebbero degli uomini addetti alla tortura, che spargono alcool sui corpi delle persone e poi gli danno fuoco, che incappucciano la gente e poi iniziano a sparare a pochi centimetri per terrorizzarli. Non c’è modo di verificare quanto dicano, se non vedere il terrore nei loro occhi e la determinazione nel tornare a combattere sotto alle bombe, imbracciando armi incomparabilmente meno forti.
La difesa o la conquista di Misurata sono diventate uno dei punti nodali della guerra in Libia. Perché la città è l’unica controllata dai ribelli in Tripolitania, a pochi chilometri da Tripoli. E da lì potrebbe partire l’assalto finale alla capitale se l’opposizione dovesse prevalere. Qui poi la resistenza non ha mai mollato, costruendo una serie di “fronti”, di barricate sovrapposte, che hanno impedito ai tank di Gheddafi di avanzare. Militarmente è forse l’unico successo dello sgangherato esercito della rivoluzione del 17 di febbraio.
Da parte sua il colonnello ha provato a fare a Misurata quello che aveva promesso ai cittadini di Bengasi. «Chi siete?» aveva gridato Gheddafi in Tv nel suo discorso alla nazione all’inizio della rivolta, «vi verrò a cercare casa per casa, vi schiaccerò come topi». Nelle ultime ore la situazione sembra essersi girata a favore dei ribelli, che avrebbero fatto arretrare il nemico dopo oltre due mesi di battaglia e di distruzione. Ma ormai centinaia di case della città sono sventrate, le infrastrutture sono azzerate, e la popolazione è afflitta. E quasi tutti hanno un parente o un amico che in questi due mesi è morto o è rimasto ferito. Ogni guerra ha i suoi orrori e i luoghi simbolo del martirio di un popolo. E in Libia questo luogo è Misurata, comunque vada a finire la guerra.
(1 - continua)