FEDERICO RAMPINI, Repubblica 10/5/2011, 10 maggio 2011
NEW YORK TROVA IL SUO RE SUL PODIO FABIO LUISI
«Il Met è stato costruito da James Levine e il suo declino fisico è terribile. Ma Fabio Luisi ha dimostrato perché l´Opera e i suoi musicisti lo corteggiano. In questa funzione porta la sua esperienza e il suo temperamento. È un direttore perfettamente affidabile, capace di risultati ottimi in ogni circostanza e con qualsiasi repertorio». Un elogio come questo, pubblicato ieri dal New York Times, equivale a un incoronamento. Con tutte le cautele del caso, perché sua maestà Levine non ha il congedo facile, New York si prepara a un evento quasi storico. L´addio al maestro che ha portato il Metropolitan Opera ai livelli attuali è doloroso, ma sulla scelta del successore il tam tam dell´establishment sembra univoco. Il favoritissimo è Luisi, già "primo direttore ospite" del Met, per raccogliere un´eredità grandiosa e impegnativa. In quest´intervista il 52enne maestro genovese evita diplomaticamente l´argomento-Levine, ma si apre sulla "storia d´amore" con New York.
Lei è più all´estero che in Italia, forse per la carriera tutta cosmopolita: direttore principale a Dresda, Vienna, Zurigo. Gli americani la descrivono come «un italiano dall´inglese perfetto ma con un lieve accento tedesco».
«Sì, ma non consideratemi un animale strano. I primi studi li feci in Italia, poi in Francia, e dall´età di 21 anni sono all´estero. Dal 1981 a oggi nel mondo germanico. Il primo distacco dall´area culturale tedesca avviene grazie a New York. E tuttavia mi sento italianissimo, non ho perso le mie radici, di recente ho comprato casa a Camogli».
Questa fusione tra Italia e Germania contribuisce a farla stimare qui negli Stati Uniti.
«La lunga immersione nella cultura musicale tedesca probabilmente si sente nel mio approccio a tutti gli autori, inclusi gli italiani e i francesi. Per me è naturale, non sono dottor Jekyll e Mr.Hyde».
Ma uno dei suoi exploit più celebrati di recente è stato il "salvataggio" di un´edizione controversa della Tosca. Lanciata al Met in una versione contestata e fischiata. Poi applauditissima sotto la sua guida. Al fiasco della prima versione contribuì una regia poco felice del francese Luc Bondy. E questo ripropone il difficile equilibrio fra direttore d´orchestra, regia, sceneggiatura, in questi allestimenti sempre più curati, grandiosi, spettacolari.
Alla fine, chi comanda?
«Nel caso della Tosca sono arrivato qui con molta adrenalina. Bondy non era innamorato della Tosca e invece Puccini va accettato, amato in toto come tutti gli autori veristi. Bisogna abbandonarsi a lui. Per molti registi la difficoltà che presenta l´opera lirica, rispetto al teatro di prosa o al cinema, sta proprio nel ritmo. Il ritmo nella prosa o nel film lo impone il regista, nell´opera lo stabilisce il compositore, poi il direttore. I movimenti, le entrate-uscite, la dizione, tutto il ritmo drammatico è insito nella musica. Il direttore apre e chiude la rappresentazione, è lui a prendere le decisioni fondamentali».
Cosa significa oggi lavorare in un "tempio" mondiale come il Met?
«Significa avere la migliore orchestra del mondo, e uno dei migliori cori in assoluto. Significa lavorare a un ritmo molto serrato, sette recite a settimana più le prove. Si dà il meglio di sé, sotto pressione. Investire nella qualità, ha fatto del Met un teatro di riferimento mondiale, unico per la capacità di eseguire ai massimi livelli Verdi e Puccini insieme a Wagner e Strauss e agli autori francesi, con un´orchestra che conosce il repertorio a menadito non solo dal punto di vista tecnico ma anche stilistico».
Lei a New York, Riccardo Muti a Chicago, Nicola Luisotti a San Francisco: c´è una rivalità fra le star italiane della lirica che conquistano l´America?
«No, perché noi direttori d´orchestra non c´incontriamo quasi mai: è un mestiere solitario, a dirigere è uno solo alla volta. Di Muti ho apprezzato molto il ruolo di capofila per mobilitarci nella battaglia contro i tagli alla lirica in Italia».
In Italia lei torna spesso, ha diretto gratis al Carlo Felice di Genova per aiutarlo a uscire dalla crisi. Come vede la lirica italiana?
«Purtroppo ha smesso da tempo di essere un punto di riferimento nel mondo. Eppure noi del mestiere sappiamo quanto fuoco di passione amorosa ci sia ancora: tra i musicisti, i cantanti, i tecnici. Purtroppo l´interesse di chi governa l´Italia per la cultura è inesistente. Ai vertici del paese vedo indifferenza e incompetenza».
Da Vienna a New York, dalla capitale del primo Novecento a quella del XX secolo: anche a Manhattan avverte segni di decadenza?
«Se c´è un declino americano è perché gli iniziatori della globalizzazione sono i primi a pagarne le conseguenze. Però Vienna vive sul passato, New York nel presente. L´energia che mi trasmette, il suo magnetismo, mi fa sentire più vivo. Quando esco dal Met e mi trovo immerso in questa metropoli, senza accorgermene cammino perfino più svelto».