Michele Anselmi, Il Secolo XIX 9/5/2011, 9 maggio 2011
«BASTA FILM, PREFERISCO DISEGNARE»
«BASTA FILM, PREFERISCO DISEGNARE» -
“Potrebbe essere memorabile” scherza alla sua maniera disincantata Ettore Scola, cogliendo la singolare coincidenza tra il suo ottantesimo compleanno, che scocca domani, e il terremoto da molti annunciato per il giorno dopo a Roma (speriamo sia una leggenda metropolitana). Festeggiato venerdì con un David di Donatello speciale, il cineasta di Trevico, Irpinia, non s’è sottratto agli omaggi istituzionali che l’hanno coinvolto, sarebbe stato scortese; ma si vedeva che il festeggiamento non lo scaldava più di tanto. Con l’età Ettore è diventato più ironico e spiazzante, non si atteggia a venerato maestro, ogni tanto infligge qualche pizzicotto ai colleghi famosi (Servillo, Benigni, Muccino, i nuovi comici), riceve con pazienza presidenze onorifiche che lo fanno sorridere, soprattutto non pensa più al cinema. Meglio: a far film. L’ultimo suo film risale al 2003, “Gente di Roma”, quasi un taccuino romano senza attori famosi, poi più nulla.
«Non ho ispirazione. Preferisco godermi la vecchiaia. Leggo, scribacchio, pensicchio, tutto con il diminutivo» ripete. «Con la vecchiaia si ha una percezione diversa del tempo, cerco di capire il senso della crescita dei nipoti, la lettura diventa il centro della giornata. Se mi viene un’idea, non ha a che fare col cinema».
L’altro giorno, al Quirinale, il presidente Napolitano l’ha affettuosamente omaggiato, invitando lui e i presenti a «credere ancora nel cinema e in altre cose». Scola ha risposto così: «Invecchiare in questo Paese può significare essere tristi, malinconici, per i troppi problemi e macerie. Ma ogni tanto c’è una voce isolata e unica che ci ridà speranza, fiducia, anche buon umore. Grazie Giorgio». Un buon umore che più tardi ha espresso in tv, raccontando spiritosamente di quei ladri che, dopo avergli depredato casa, gli hanno fatto ritrovare sulla porta i quattro David rubati.
Ma non è di Scola cineasta, dell’artista colto e popolare che ha firmato ventisei lungometraggi, a partire da “Se permettete parliamo di donne” del 1964, che oggi vogliamo parlarvi. I suoi film, alcuni autentici capolavori, li conosciamo: da “Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca” al “Commissario Pepe”, da “C’eravamo tanti amati” a “Una giornata particolare”, da “Ballando ballando” a “La famiglia”. Pochi sanno, invece, che Scola è un disegnatore coi fiocchi, cresciuto alla scuola del “Marc’Aurelio”, il settimanale satirico nel quale si fecero le ossa nella seconda metà degli anni Quaranta umoristi come Maccari, Marchesi, Age e Scarpelli, illustratori come Barbara, De Seta, Attalo. “Un regista che lascia il (di)segno” fu infatti il titolo di una mostra che nel 2005, alla romana Casa del Cinema, raccolse duecento tra vignette, schizzi, scarabocchi, bozzetti, caricature. Un passatempo, certo, non un mestiere, i film sono un’altra cosa. Eppure quei disegni racchiudono un insinuante mondo grafico, perlopiù in bianco e nero, con qualche tocco di rosso e azzurro. In alcuni casi evocano il cinema di Scola, in altri sembrano prendere strade proprie, più legate a una sapida osservazione dell’esistenza. Come nel caso di quell’uomo disossato, stravaccato in poltrona, le lunghe gambe accavallate e il bicchiere in terra, la cui malinconica confessione recita: «Io sono lo spettatore medio, di media età, ho gusti medi, due diti medi, amo il medio evo, appartengo al ceto medio, giocavo da mediano, sono un po’ medium, come sesso sono molto medio, sono incazzato, molto incazzato, anzi mediamente incazzato».
Disegnava bene anche Fellini, non solo donnine callipigie e maschi dai falli proboscidali, ma in Scola sembra imporsi un uso diverso della matita. Che spiegò così: «Scarabocchi personali, destinati più al cestino che al cassetto. Ghirigori mentali, giochi di parole visivi, segni tracciati per distrazione riflettendo ad altro o a niente. Li faccio da sempre, su fogli, tovaglioli, margini di giornali». Eppure, visti l’uno dietro all’altro, quegli schizzi rivelano un gusto della composizione affollata che viene da lontano; un po’ da Grosz e un po’ dal semplice piacere di fissare un’immagine, per deformarla in chiave umoristica (il quartetto Mussi, Fassino, Veltroni e D’Alema, colto a un congresso politico).
Una Scola tutto da scoprire. E c’è da augurarsi che abbia continuato a «sporcare la carta» ritraendo quelle figurine anonime - passanti e astanti irreali - immerse in situazioni di ordinaria quotidianità. Le descrive così: «Personcine dall’esistenza abbreviata in una sola dimensione, senza chiaroscuri, perplesse nella fissità di un cenno o di uno sguardo: come quando un improvviso pensiero ci blocca per un istante in un gesto a mezz’aria. Ometti di periferia, donnine di case modeste, nudi o vestiti ma sempre alla ricerca di un contegno che sperano di trovare magari mettendo una mano in tasca e avendo un bicchiere nell’altra. Un’umanità piccola e malinconica che, se proprio le si vuole trovare uno scopo, è lì per affermare il lato buffo dell’esistente». Bello, no? A suo modo, anche molto cinematografico.