Goffredo Buccini, Corriere della Sera 11/05/2011, 11 maggio 2011
IL SANTO E L’INCHINO AL BOSS CHE DURA DA 20 ANNI —
La cappella della santa e il balcone del boss stanno a nemmeno dieci metri di distanza: sulla stessa facciata del palazzone di via Brin, a due passi dal porto in crisi e dagli eterni striscioni di protesta della Fincantieri. Qui il cancelletto sgarrupato e quasi sempre chiuso («aprì per l’Immacolata due anni fa» , dicono) di Santa Fara; lì, al primo piano, la loggetta temuta e riverita da cui s’è affacciato per anni Renato Raffone, detto «Battifredo» , consuocero dei D’Alessandro. A Castellammare tutto è un po’ mischiato, del resto, è dura separare col coltello il bene dal male: figli di professionisti e figli di camorristi crescono assieme sui banchi di scuola, per strada o al bar continuano a darsi del tu, un po’ come Santa Fara e Battifredo nel palazzo di via Brin, magari. Si capisce che sulla commistione deve aver giocato il boss, che due volte l’anno faceva capolino da lassù come un padreterno, in occasione della processione di San Catello, vescovo d’epoca longobarda e patrono della città. S’affacciava, si batteva la mano sul cuore davanti al popolo osannante, esponeva un drappo rosso dal davanzale, c’è chi giura che desse il via libera alla ripartenza. «Gli accendevano pure i fuochi d’artificio là sotto, la prima volta che l’ho visto non ci volevo credere» , racconta adesso Luigi Bobbio, sindaco Pdl da un anno, ex pm antimafia, ex duro di Alleanza Nazionale, poco propenso all’understatement: «Io a certa gentaglia sparo in fronte, metaforicamente parlando, si capisce...» . Domenica la tradizione dell’omaggio a Battifredo ha subito un colpo. E qualcosa s’è spezzato tra sindaco e vescovo, certo per un bel pezzo. Perché davanti ai fedeli — e in favore di telecamera — Bobbio ha deciso di mandare all’aria la tappa di via Brin sotto il fatale balcone. La scena, immortalata nei video, toglie il respiro come un noir. Gigino lo sceriffo ordina ai portantini: «Nun ce fermamm’, guaglioni» , tiriamo dritto. Loro, una specie di consorteria alquanto sensibile alle ragioni della camorra stabiese, resistono statua in spalla: «Simm’gent’e core, che ci costa fermarci?» , dice uno. «Qua so’ tutti camorristi!» , ringhia un altro. Bobbio tiene duro: «Me ne fotto di Battifredo» , niente salamelecchi al padrino. E qui entra in campo il vescovo, magari animato dalla pia intenzione di placare gli animi, con risultati tutt’altro che felici: «Noi ci fermiamo per il santo» , dice, tradendo un tremolio nella voce. Insomma: ragioni superiori, Deus vult. «Ma lei sa bene come viene letta questa cosa, la camorra vive di questi simboli, si rafforza quel personaggio» , lo stronca il sindaco e si capisce che non sta parlando di San Catello: pochi minuti dopo porta via il gonfalone, si toglie la fascia tricolore e si sfila dalla processione, un capitano dei carabinieri farà rapporto al prefetto e al procuratore. Due giorni più tardi, dalla loggetta di Battifredo al posto del drappo rosso pendono i panni ad asciugare, il cancelletto di Santa Fara resta desolatamente chiuso, cumuli di mondezza ricordano a Castellammare una quotidianità difficile quasi quanto quella napoletana. In municipio, toscano in bocca e profilo Facebook affollato di cittadini plaudenti (anche di sinistra, «finalmente un sindaco con le... qualità» ), lo sceriffo Gigi ridacchia. Gli è saltato pure un appuntamento con il vescovo, «non ci siamo più risentiti» , dice, ma non sembra darsene pena: «Sì, volevo fare un gesto anche simbolico. La forza di questi delinquenti sta nella credibilità che trovano nelle autorità, anche ecclesiastiche. Un anno fa, mi feci afferrare per pazzo quando vidi quella scena indecente sotto il balcone, e da allora ho detto: camminiamo, non ci fermiamo. Il vescovo mi ha risposto: «Perché non ci si deve fermare? La statua è nostra!» . Io dico: era vent’anni che durava ’ sta schifezza, adesso basta!» . In Curia, al diretto di monsignor Cece, risponde una voce gentile che dice: «Il vescovo è fuori città. Spiacente, anche il vicario» . Sicché, nel silenzio non belligerante di una delle parti, la faccenda finirebbe qui, se questa non fosse Castellammare, la città che fino all’anno scorso era, con Pomigliano, il barometro della sinistra al Sud (tutt’e due, adesso, sono amministrate dal centrodestra). Che tra un pezzo di Chiesa stabiese, sensibilissima alle ragioni degli ultimi, e la nuova giunta non fossero rose e fiori era chiaro dalla via Crucis, quando dalle parrocchie sono salite preghiere di questo tipo: «Perché gli amministratori amministrino per i molti e non per i pochi» . «Cattocomunisti» , dice adesso tra i denti qualcuno al palazzo comunale. L’omaggio ventennale al boss — in questa Stalingrado meridionale che ha visto due delitti eccellenti (l’omicidio Tommasino e l’omicidio Corrado) in bilico tra camorra e politica nelle fila degli eredi del Pci — chiama in causa inevitabilmente i governanti delle stagioni precedenti. Il vendoliano Salvatore Vozza era sindaco fino all’anno scorso ed è tuttora l’uomo forte della sinistra stabiese. «Non voglio parlare, basta polemiche tra me e Bobbio» , dice. Poi parla: «È una sceneggiata indecente, quella che ha fatto il sindaco, ma non lo scriva. Il vescovo non ha mai tentennato nella lotta alla camorra, ma non scriva nemmeno questo. Bobbio doveva ragionarci a quattr’occhi invece di fare quella pagliacciata davanti ai cittadini. Il percorso è quello canonico, da tradizione, se si fosse omaggiato un boss io me ne sarei andato subito, anni fa. È che Bobbio è capace solo di vietare le minigonne e di litigare con tutti, adesso pure con San Catello. Ma non scriva niente, eh?» . In questa città dove un vendoliano comanda anche sul Pd e difende il vescovo attaccato da un sindaco pdl, è sempre più difficile vedere contorni e confini. Gaetano Cimmino, per dire, il segretario Pd che aprì il partito ai D’Alessandro, ora sta con Bobbio. Battifredo, un tempo, era dipendente comunale, così come molti dei portantini di San Catello. Ogni vittima di camorra viene puntualmente mascariata, sfregiata nell’onore. Questa è Castellammare. Vallo a distinguere, quaggiù, il grano dal loglio.
Goffredo Buccini