Enrico Deaglio, Il Secolo XIX 8/5/“MA NON SERVE LA TORTURA” DI 2011, 11 maggio 2011
MA NON SERVE LA TORTURA
E’difficile sostenere che non bisogna torturare. Lo è sempre stato. L’uomo della strada vi dirà: una banda terrorista sta per mettere una bomba in un bar. Se io arresto un membro della banda, non ho forse il diritto (o meglio il dovere) di torturarlo perché, sopraffatto dal dolore fisico, mi dia le informazioni di cui ho bisogno per impedire l’attentato?
La risposta è no, ma spesso è difficile da sostenere. Ora la questione si ripropone con l’uccisione di Bin Laden. Diversi membri della amministrazione Bush spiegano infatti che, se si è giunti ad individuare il corriere di Abbottabad, lo si deve ai metodi usati a Guantanamo, in particolare al “waterboarding”, una forma di tortura che simula per il detenuto la morte per annegamento e lo getta in tale dolore e angoscia da “farlo parlare”. Avevamo ragione noi, dicono.
Ma non è così. Prima di tutto nella ricostruzione della verità dei fatti. Bin Laden è stato individuato in Pakistan attraverso soffiate (molto ben pagate), appostamenti, controlli satellitari, microspie e non perché un affiliato di Al Qaida, sopraffatto dal dolore fisico, rivelò il nascondiglio (Quando? Come? I sostenitori della tortura non lo sanno dire). In secondo luogo è norma comune delle organizzazioni clandestine premunirsi di fronte agli effetti della tortura. Nessun combattente, ancorché di ferro, può resistere più di tanto e quindi, sapendo che uomini importanti di Al Qaida erano sottoposti a tortura, Bin Laden avrebbe cambiato indirizzo. Una vecchia norma dei partigiani consigliava a chi veniva arrestato dai nazisti: “resisti per 48 ore, poi parla pure”, nel frattempo l’organizzazione avrà avuto il tempo di attrezzarsi. In terzo luogo non si calcola che il torturato possa dare false informazioni al torturatore, per esempio quelle che vuole farsi sentire, o qualsiasi informazione, basta che la smetta.
Ma la tortura, comunque, esiste. Anche in Italia. Nel 1981 ad alcuni fiancheggiatori delle Br vennero applicati elettrodi ai testicoli con passaggio di corrente elettrica per farsi rivelare il luogo ove era nascosto il generale americano Dozier. Al brigatista Cristoforo Piancone catturato ferito durante il sequestro Moro (anno 1978) vennero somministrati farmaci nella speranza che potesse parlare. Nel 1985 la polizia di Palermo sottopose alla tortura dell’acqua il sospetto mafioso Salvatore Marino, che morì durante il procedimento per rottura dell’esofago (e venne buttato in mare dai poliziotti stessi). Nel 1969, l’anarchico Giuseppe Pinelli venne tenuto in Questura per tre giorni con torture psicologiche di ogni tipo perché confessasse una inesistente matrice anarchica nelle bombe alla banca dell’Agricoltura. E dopo tre giorni fu trovato precipitato dalla finestra del quarto piano.
Non siamo soli. Ai tempi del terrorismo tedesco, il trattamento carcerario dei membri della Raf (deprivazione sensoriale) fu una forma di tortura. La dittatura argentina torturò scientificamente migliaia di ragazzi, e poi li ammazzò. La polizia segreta dello Scià torturava con la stessa scientificità.
Ma ci sono altri problemi pratici, con la tortura. Che cosa si fa del prigioniero, se non parla? Che cosa succede se la sua parte politica vince? Che cosa si fa del torturatore? Ovvero colui che è stato comandato a torturare, ma che sa e che potrebbe parlare? Quanto sadismo viene prodotto nella tortura, come lo si controlla? Se la tortura è una cosa buona, perché allora i torturatori non vengono dichiarati eroi, modelli da seguire? O forse lo sono?
Perché i regimi che praticano la tortura, in genere cadono?
In termini più generali, la tortura è l’ammissione della forza delle opinioni del nemico, la prova della propria intima debolezza. La spia di un qualcosa che sta per finire.
In Europa tutti questi temi furono molto dibattuti negli anni Cinquanta, quando la Francia democratica e antifascista imprigionava e torturava i combattenti del Fronte nazionale di liberazione algerino, sperando così di risolvere a suo favore la guerra di indipendenza. Se rivedete il capolavoro di Gillo Pontecorvo, “La Battaglia di Algeri”, vi troverete il dibattito attuale. L’esercito francese ottenne, è vero, dei successi militari con la tortura, ma perse la guerra quando pensava di averla vinta.
A quei tempi, il poeta e chansonnier Jacques Prévert scrisse alcune memorabili righe che possono – per la loro intelligenza e profondità – essere riproposte oggi:
“Abbiamo torturato le nostre menti a lungo e non l’abbiamo mai fatto a cuor leggero, per argomentare le nostre ragioni in favore della tortura. Con i nostri corpi e le nostre anime, ci siamo conquistati il diritto di affermare quanto sia futile e vano ogni volta rimettere tutto in discussione e ancora una volta tentare di riproporre la questione, e ancora una volta farci dondolare davanti le sagome del dolore fisico opposte al decoro secolare dell’orrore. Questa non è, questa non è mai stata, la questione del dibattere. La questione è la tortura. Perché dunque rimetterla di nuovo in discussione? La tortura non dovrebbe essere torturata. La questione non dovrebbe più essere posta”.
Ecco. Non c’è molto da aggiungere.
Da: jessica d’ercole [mailto:j.dercole@glgiustiziaeliberta.it]
Inviato: martedì 10 maggio 2011 10.11
A: Massimo Righi
Oggetto: Fwd: Il Secolo XIX di domenica 8/5
Per il foglio:
“Ma non serve la tortura” di Enrico Deaglio 1-39 (fdf)