Dario Di Vico, Corriere della Sera 10/05/2011, 10 maggio 2011
PICCOLE IMPRESE IN RETE, SVOLTA SUI MUTUI MA IL VERO TEST E’ IL FISCO
Oggi a Roma Rete Imprese Italia festeggia il primo compleanno con un’assemblea di dirigenti e quadri nella quale il portavoce unico, Giorgio Guerrini, alternerà le valutazioni sugli avvenimenti più recenti (il decreto governativo per lo sviluppo) con un primo bilancio della nuova esperienza organizzativa. È passato appena un anno da quando le cinque sigle del commercio e dell’artigianato (Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato e Casartigiani) hanno deciso di dare vita a una sorta di federazione e in soli dodici mesi il loro modello si è imposto come success story tanto da essere adottato da altre organizzazioni di rappresentanza, a partire dal varo dell’Alleanza delle cooperative. Spenta però la prima candelina e brindato alla riuscita dell’operazione Guerrini e gli altri presidenti dovranno giocoforza interrogarsi sull’agenda del secondo anno, quello decisivo per misurare le ambizioni di un progetto che -non va dimenticato -segna una profonda discontinuità con gli assetti novecenteschi centrati sul rapporto tra politica, grande impresa e sindacati confederali. Gli incentivi Per quanto riguarda il rapporto con la Confindustria in verità non c’è stato quel dualismo che pure si poteva preventivare. In alcuni casi (le polemiche sul Sistri, il Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, e la politica fiscale) le due organizzazioni sono andate persino oltre il fair play e hanno preso posizioni comuni con tanto di comunicato ufficiale per la stampa. Nemmeno nei territori si segnalano casi di particolare competizione tra Rete Imprese e la Confindustria e questo ci porta a dire che la mappa della rappresentanza delle imprese si è arricchita di un nuovo protagonista senza però subire contraccolpi. Qualche differenza di opinione si è registrata nella querelle sugli incentivi per le energie rinnovabili ma i contrasti sono rimasti nell’ambito di una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Quindi più che la concorrenza politico-organizzativa con Confindustria, a connotare i primi dodici mesi di vita di Rete Imprese è stata molto di più la difficile ricerca di una sede dove si concertasse la politica economica del Paese. Sin dalla prime battute tra le motivazioni forti dell’operazione Capranica (da cui è partita Rete Imprese) c’era quella di «parlare a palazzo Chigi con una sola voce» , di dare quindi massa critica alle rivendicazioni sindacali e all’azione di lobby. Purtroppo però ci sono state sempre meno occasioni per prendere la parola nel palazzo del governo e la stessa azione di lobby è stata azzerata a causa dell’assenza di risorse pubbliche in palio. No budget, no lobby. Le vere scelte governative alla fine si sono consumate in Via XX Settembre più che a palazzo Chigi, ma il ministro Giulio Tremonti ai tavoli della concertazione ha sempre mostrato di preferire il metodo della consultazione mirata al perfezionamento di un singolo provvedimento. Colloqui one-to-one più che riunioni rituali. È vero che nei mesi scorsi era nato in sede Abi un mega-tavolo delle parti sociali per la competitività ma successivamente se ne sono perse le tracce e non poteva essere Rete Imprese a resuscitarlo. La riforma fiscale Se mai la concertazione dovesse riprendere il contenuto-driver sarebbe la riforma fiscale. Finora Tremonti ha insediato le commissioni tecniche, non ha però esplicitato un vero timing e le prime anticipazioni («sposteremo la tassazione dalle persone alle cose aumentando l’Iva» ) non hanno certo favorito l’unità di Rete Imprese Italia, perché in una fase stagnante dei consumi l’aumento del prezzo «facciale» dei prodotti non può non allarmare i commercianti. E la vibrante reazione del leader della Confcommercio, Carlo Sangalli, lo testimoniano a sufficienza. Se in questi mesi la politica economica «generalista » è rimasta «invisibile» agli occhi delle parti sociali ci sono stati però almeno due tavoli i cui contenuti hanno avuto riflessi importanti sulla vita delle imprese: il negoziato per il rinnovo della moratoria sui debiti bancari e quello sui correttivi per gli studi di settore. In entrambe le occasioni la controparte diretta delle imprese non era il governo, ma nel primo caso l’Abi e nel secondo l’Agenzia delle entrate. In sedi molto tecniche e poco politiche la formula di Rete Imprese Italia ha funzionato e la neo-nata federazione si è dimostrata competitiva con Confindustria nell’argomentare e nel difendere le ragioni dei Piccoli. Sul piano più strettamente organizzativo la formula della federazione ha lasciato pressoché immutata la vita quotidiana delle singole sigle. È vero che è stata aperta a Roma una sede comune rappresentativa e il ruolo-chiave nelle elaborazioni di cultura economico-politica è stato appaltato alla Fondazione di Rete Imprese Italia nata ad hoc e diretta da Giuseppe De Rita, ma la routine delle singole Confartigianato o Confesercenti è rimasta sostanzialmente inalterata. E infatti ciascuna delle organizzazioni terrà comunque, anche nel 2011, la rituale assemblea annuale. Non ci sono state dunque vere cessioni di sovranità da parte delle organizzazioni verso Rete Imprese, il modello adottato nella prassi si è rivelato quindi più soft di quanto ad esempio sia il modello Ue che vede Bruxelles accentrare un pacchetto di competenze-chiave de facto sottratte alla piena sovranità nazionale. Ovviamente anche i budget sono rimasti rigorosamente autonomi e le singole organizzazioni «si tassano» per pagare le spese comuni. La via dell’unità Questa timidezza nell’avanzare sulla strada dell’unità piena non ha permesso che la formula Rete Imprese si affermasse sul territorio. Forse non esiste nemmeno un censimento preciso delle federazioni costituite a livello locale replicando l’accordo raggiunto in sede nazionale, ma si può tranquillamente dire che arrivano a mala pena a cinque e non c’è nessun portavoce unico a livello decentrato. Risultato: sul territorio non si sono sviluppate esperienze originali che abbiano articolato e arricchito il quadro generale, i dirigenti locali si rispettano, si sentono parenti, ma ognuno è rimasto a casa sua. È chiaro che la relativa apatia dei territori, figlia della non volontà del vertice romano di spingere l’acceleratore, ha avuto un effetto negativo: la nascita di Rete Imprese non ha cambiato il rapporto tra la rappresentanza e le imprese associate. Le associazioni locali sono rimaste erogatrici di servizi di base (contabilità, buste paga, dichiarazione dei redditi) e tutt’al più hanno gestito qualche missione all’estero promossa dagli enti locali, ma nella sostanza non si è riusciti a far leva sulla novità Rete Imprese per operare un salto di qualità nel rapporto con gli associati. I temi che avrebbero potuto cambiare il modo di operare delle Pmi (e ri-qualificare la rappresentanza) sono restati sotto traccia. Servirebbe accelerare sul tema dell’innovazione perché una buona fetta dei prodotti delle piccole imprese avrebbe bisogno di essere rinnovato nella tecnologia utilizzata, nell’iter di commercializzazione e persino nel packaging. Servirebbe una forte spinta all’internazionalizzazione specie per quei settori che vivendo in toto di mercato interno sono rimasti penalizzati dalla dinamica dei redditi interni. Servirebbe una politica industriale dal basso che rafforzi i meccanismi di filiera e che rimotivi la fornitura e la subfornitura. Tutti temi che nel secondo anno di vita Rete Imprese Italia non potrà non inserire in agenda. P. s.: In materia di aggregazioni Rete Imprese Italia si è dimostrata più che timida. Piccolo è stato bello, bellissimo e non sempre grande è sinonimo di efficienza (anzi). Ma quante reti di impresa in un anno sono state create su input della nuova federazione? Poche, troppo poche.
Dario Di Vico