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 2011  maggio 08 Domenica calendario

L’ITALIA DECISIVA IN LIBIA"

Madame Secretary, questo è il suo primo viaggio a Roma come Segretario di Stato. È venuta per il Gruppo di Contatto sulla Libia. L’Italia ha preso una decisione molto importante di recente, ovvero il coinvolgimento anche nell’aspetto militare della crisi libica. Questa decisione ha fatto una differenza reale?

«La leadership italiana ha sempre avuto un’importanza notevole. Sin dall’inizio ho contato sul ministro degli Esteri Frattini. L’Italia ha sempre partecipato alla pianificazione delle operazioni in Libia. E quest’ultima decisione avrà un impatto di rilievo».

La strada imboccata dall’Italia nel conflitto libico è stata molto incerta. Come alleati avete compreso la complessità del nostro percorso?

«Sì, lo capisco perfettamente. Ho parlato sia con il presidente Napolitano sia con il primo ministro Silvio Berlusconi sulla complessità di tale decisione. Non solo gli Usa, ma anche i partner Nato e non, hanno apprezzato moltissimo la leadership italiana. Tutti sono consapevoli che per l’Italia la situazione è più complessa che per gli altri. Ma è proprio perché l’Italia conosce bene la Libia, ha tanti contatti e rapporti storici con quel Paese, è particolarmente importante che l’Italia ricopra un ruolo di primo piano».

Esiste da parte statunitense una valutazione di quanto lunga può essere questa guerra? L’Italia, o meglio il governo italiano, come lei ben sa, ha trovato un accordo proprio sulla base della durata del conflitto...

«Tutti, e anche gli Stati Uniti naturalmente, stanno cercando di arrivare rapidamente a una soluzione politica. L’ostacolo è il Colonnello Gheddafi. Ha rifiutato di accettare un legittimo e duraturo cessate il fuoco sulla base del quale poi avremmo potuto intavolare una discussione politica. Dobbiamo continuare a fare pressione - non solo con mezzi militari - così come è stato deciso nel corso della riunione del Gruppo di Contatto; con le pressioni diplomatiche e finanziarie potremo riuscire a modificare il modo in cui Gheddafi e i suoi valutano la situazione. La riunione del Gruppo di Contatto ospitata dall’Italia è stata un successo poiché sono state decise delle azioni molto precise. Come ad esempio il trasferimento dei beni congelati al regime di Gheddafi al Consiglio nazionale di transizione. Stiamo anche cercando un modo per facilitare l’export petrolifero così che il Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) possa ricevere fondi. Su questo la Comunità internazionale è unita e impegnata. E di tutto ciò sono molto contenta».

Ci sono molti rapporti dal terreno e perplessità in generale sulle capacità militari dei ribelli, su chi sono. Vi siete mai confrontati con questo

problema?

«Abbiamo affrontato direttamente la questione. Ho incontrato cinque rappresentanti del Cnt. Per quanto riguarda l’organizzazione civile, per esempio del ministero delle Finanze, sono stati fatti dei progressi anche se c’è ancora molto da fare. Jebril [il “ministro degli Esteri” degli insorti di Bengasi, ndr] ha avuto incontri con diversi esponenti politici leader di vari Paesi. Sul piano militare noi e gli altri abbiamo chiarito che è necessaria un’organizzazione più strutturata di “comando e controllo”. Molte nazioni, fra le quali Italia, Regno Unito, Francia e i Paesi arabi, stanno collaborando con loro. Vorrei anche aggiungere che tutto questo va avanti da poco più di un mese. La rivolta è iniziata a febbraio, poi c’è stata la repressione e quindi naturalmente la risposta della comunità internazionale alle Nazioni Unite. Abbiamo visto giovani e meno giovani che mai erano stati impiegati in operazioni militari, che mai avevano imbracciato un’arma, decisi a combattere contro questo regime di oppressione. Hanno deciso di lottare, hanno volontà, coraggio, ma non la disciplina necessaria. Ci sono stati molti progressi e in questo l’Italia sta giocando un ruolo essenziale».

C’è una sensazione in una parte della pubblica opinione europea che in fondo l’America abbia un doppio standard nei confronti di Gheddafi rispetto ad altri leader. Siete stati più duri con lui che con altri?

«È stata l’Europa a rispondere per prima alla crisi in Libia trovando il pieno sostegno della Lega Araba. Gli Stati Uniti intendono fare parte di questa coalizione e abbiamo già dato un importante contributo. Ma è stata la preoccupazione dei leader arabi ed europei a livello Onu che ha smosso la situazione. In Siria vediamo quello che è successo, purtroppo. Stati Uniti, Italia, altri partner europei e arabi condividono la stessa preoccupazione. Noi siamo stati molti chiari e diretti. Abbiamo iniziato ad applicare sanzioni contro i leader siriani. Ma la situazione è ancora più complessa per molti versi. Vi sono svariati motivi di tensione e noi stiamo facendo pressioni sul governo di Damasco affinché rispetti l’impegno di fare le riforme».

Il caso siriano è il più doloroso.

«Indubbiamente».

È il Paese dove sono state uccise più persone nelle strade.

«Non abbiamo dati certi, ma sappiamo che la Siria può ancora varare le riforme. Nessuno invece credeva che Gheddafi lo avrebbe fatto. La gente ritiene ci sia un percorso possibile con la Siria. Per questo continuiamo insieme ai nostri alleati a fare pressioni».

Sarò molto brusca. È possibile che Gheddafi venga ucciso?

«Cosa?».

La possibilità che Gheddafi venga ucciso...

«Non lo so. Onestamente non è questo lo scopo della missione. L’obiettivo è invece proteggere i civili. Ma vi sono dei “target” legittimi, come per esempio il bunker di “comando e controllo”, che sono gestiti da lui e dai suoi familiari. È un conflitto e quindi potrebbe diventare vittima della violenza che lui stesso ha innescato».

Signora Clinton, non riesco a evitare di chiederle che cosa è accaduto in quei momenti nella War Room. Lei ha parlato molto di se stessa, ma quali erano le sensazioni del Presidente? C’è una foto fantastica, ma dentro che succedeva?

«Devo ammettere che non mi ero resa neanche conto della presenza di un fotografo. Eravamo tutti concentrati su quello che stava accadendo, sui dati che avevamo della missione così pericolosa che il Presidente aveva ordinato. Sono stati 38 minuti nei quali non potevamo fare altro se non pregare e sperare che gli uomini in azione potessero avere successo senza subire danni. La loro professionalità e coraggio non sono mai stati in dubbio. Abbiamo programmato ogni aspetto, però non si può mai dire fino alla fine. Tutti quanti in quella stanza stavano con il fiato sospeso: aspettando il successo e sperando nell’incolumità degli uomini del commando coinvolti».

Le voglio rivolgere un’ultima domanda: in questa guerra molte donne ricoprono posizioni di comando: lei è Segretario di Stato, Susan Rice ambasciatrice Usa all’Onu, c’è una donna generale che comanda. Cosa sta succedendo? È la guerra che ha cambiato natura o sono le donne ad aver cambiato natura? È una vecchia discussione femminista e mi piacerebbe avere la sua opinione...

«Lei fa riferimento alla donna generale [Margareth Woodward, ndr] che è stata responsabile degli attacchi aerei; è la prima volta nella nostra storia, finora non c’erano state occasioni per una donna di raggiungere posizioni di comando e di avere l’esperienza e la competenza necessaria per assumere un ruolo così delicato. In varie parti del mondo vediamoche in tanti casi le donne sono vittime di oppressione. Vengono negati i loro diritti. Noi siamo fortunate, abbiamo delle opportunità che le nostre madri, le nostre nonne non avevano nemmeno sognato. È un ottimo momento essere donna, oggi, nel XXI secolo».

E lei, non ha paura di essere al comando di una guerra?

«No, io non ho paura, ma è una scelta personale. Dipende da ogni singola donna, dalle sue decisioni. Ci sono degli uomini magari che non vorrebbero farlo, tante donne che non vorrebbero, ma per quelle donne che sono disposte ad impegnarsi sul piano politico e militare ad alto livello non devono esserci ostacoli. Una donna deve potersi realizzare appieno. Se ha le qualifiche, deve avere le responsabilità e il rispetto dovuti».