Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 10/5/2011, 10 maggio 2011
L’ILLUSIONE DEMOCRATICA DELLA PRIMAVERA ARABA
L’Occidente, che ha sempre qualche paura da coltivare, teme che saranno gli islamici a occupare il palcoscenico dopo le rivolte nel mondo arabo. Anche noi, insieme agli altri, abbiamo raccontato che regimi sfibrati e autoritari sono crollati sull’ondata travolgente di un’indignazione popolare in cui gli integralisti hanno avuto un ruolo marginale. Il futuro delle rivolte arabe, da Avenue Bourghiba a Piazza Tahrir, potrebbe però non corrispondere a quanto abbiamo voluto sperare e immaginare per la Tunisia, l’Egitto e, un domani, per Libia o Siria. E per le ragioni stesse che hanno portato al crollo dei vecchi regimi.
Tutti i motivi politici ed economici delle crisi di Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e degli Assad, gravano ancora sul mondo arabo: nel 2011 il Nordafrica (più la Siria e la Giordania) rappresenta meno del 2% dell’economia mondiale. Tunisia ed Egitto aspettano quindi con impazienza, e noi qui in Europa, le prossime elezioni, quanto mai incerte, per capire se riusciranno a imboccare la strada di una democrazia che somigli alla nostra. La risposta è nei fatti: questa prospettiva deformante è già un’illusione. Per motivi storici e attuali non ci potrà essere che una democrazia diversa e magari anche poca oppure, in qualche caso sfortunato, nessuna democrazia. In primo luogo perché oggi il potere è detenuto in Egitto e in Tunisia dalle forze armate che dichiaratamente intendono guidare i prossimi eventi.
A Tunisi i militari hanno lanciato il loro avvertimento al partito fondamentalista Ennahda, guidato da Rashid Gannouchi, e non vogliono cedere il controllo agli islamici neppure se vincono alle urne. Gannouchi aveva dichiarato al suo rientro in patria dopo l’esilio che non avrebbe concorso per la presidenza ma non è bastato: Ennahda se vuole restare nella legalità deve accontentarsi di una rappresentanza minoritaria, altrimenti, minacciano, ci sarà un colpo di stato. E per essere chiari il primo ministro Essebsi ha annunciato un possibile rinvio delle elezioni previste il 24 luglio. Il coprifuoco, dopo gli scontri a Tunisi, è stata la risposta di un apparato securitario in cui giocano un ruolo ancora determinante le forze vicine al deposto presidente Ben Ali e a un regime durato una generazione.
In Egitto i generali svolgono un ruolo esplicito come garanti da oltre mezzo secolo del potere. Con l’anziano Mohammed Tantawi occupano la presidenza e hanno imposto un referendum sulle modifiche alla costituzione, approvato dalla maggioranza, che conferma l’impianto precedente, con un posto rilevante destinato alla legge islamica. Mentre la Tunisia è uno stato laico dai tempi del fondatore della repubblica Bourghiba, l’Egitto si ispira alla sharia nello statuto individuale della persona. La tolleranza nei confronti dei cristiani, una minoranza del 10% su 80 milioni, è di facciata più che di sostanza. E il riposizionamento in politica estera del Cairo, con l’avvicinamento all’Iran e al resto del mondo musulmano, potrebbe approfondire la distanza con i princìpi secolaristi. I generali sanno, inoltre, che i Fratelli Musulmani, legalizzati dopo decenni, verranno premiati dagli elettori ma anche da un sistema che ha bisogno di loro per contenere le spinte salafite degli islamici ed esercitare un controllo politico sulla popolazione. Nessun partito laico ha loro capacità di penetrazione sociale: quindi sono essenziali alla nuova democrazia egiziana.
Perché i fondamentalisti sono ancora lì e costituiscono un attore importante anche se non sono stati il motore delle rivolte? Questi regimi sono crollati per un duplice fallimento: quello del modello di sviluppo uscito dalla decolonizzazione e dei successivi tentativi di riforme e smantellamento dello statalismo. È vero che è abortito anche il progetto dei gruppi jihadisti di ribaltarli con la forza e con il sangue, come avrebbe voluto al-Qaida. Ma i movimenti e i partiti musulmani fondamentalisti che si sono allontanati dalle soluzioni violente e dalle teorie più radicali hanno saputo adattarsi meglio ai cambiamenti di quelli laici gestiti dal potere. Hanno anche preso ispirazione dal successo dell’Akp di Erdogan in Turchia, non a caso diventato un leader popolare nel mondo arabo. Ma non è detto che sarà il modello musulmano moderato dell’Akp a prevalere in Tunisia o Egitto: ogni Paese fa storia a sé.
La democrazia all’europea può influire sui certi princìpi legati al pluralismo e alla libertà di espressione in generale ma non è un traguardo. Anche perché l’Europa per i giovani arabi del Mediterraneo resta un sogno irraggiungibile, dentro e fuori. Sono stati i protagonisti delle rivolte ma continuano a ingrossare le file degli haragà, dei clandestini, coloro che bruciano la carta d’identità sperando di trovarne una diversa sull’altra sponda.
Ma c’è di più. La crisi economica che sta travolgendo il Mediterraneo, innescata dall’aumento dei prezzi energetici e alimentari, continua. Quanti milioni di poveri avremo quest’anno sulla sponda Sud a causa proprio delle rivolte o della guerra in Libia? Forse il 10-15% in più, se va bene, con un aumento del tasso disoccupazione giovanile che è già tre-quattro volte superiore a quello delle nostre parti.
Si dibatte molto di dare soldi agli insorti libici, di piani Marshall taumaturgici che non vedono mai la luce se non sulla carta: l’Europa, e pure quell’ineffabile Alleanza Atlantica che pattuglia inutilmente l’ex mare nostrum, è in realtà uno spettatore delle rivoluzioni, un convitato di pietra che si rianima soltanto in vertici inutili quanto spettrali. Agita modelli di democrazia inattuabili e fa ben poco: e le sue paure, non senza ragione, aumentano.