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 2011  maggio 10 Martedì calendario

A MILANO LE PARTECIPATE BANCOMAT

Non chiedere al Comune cosa può fare per la partecipate, ma chiedi alle partecipate cosa possono fare per il Comune. A Milano, più o meno, funziona così: 15 società per azioni partecipate dal Comune - che, escludendo la quotata A2A, hanno un giro d’affari intorno ai 5 miliardi - contribuiscono generosamente a far quadrare i conti di Palazzo Marino, che, a seconda del bisogno, preleva dividendi (o extradividendi) un po’ come al bancomat. E le partecipate ricevono ben poco dall’amministrazione in fatto d’indirizzi industriali: nei cda c’è ampia rappresentanza politica, ma il Comune non ha elaborato una strategia unitaria né un sistema per fare sinergia fra le società e tagliare gli sprechi.

Dal 2006 a oggi, indicativamente nell’ultimo mandato amministrativo, il Comune, a fronte di una riduzione notevole e progressiva dei trasferimenti statali, ha chiesto alle sue società dividendi per un totale di 1,84 miliardi, incassando, al netto degli introiti degli altri azionisti, quasi 900 milioni.

La tendenza negli anni è andata aumentando. Questa la serie dei dividendi per le casse del Comune: nel 2007 erano 85,6 milioni; nel 2008 110,7 milioni; nel 2009 147,9 milioni, nel 2010 120,3. Il boom quest’anno: nel bilancio previsionale 2011 il contributo "esterno" arriverà a 328 milioni, a cui si dovrebbero aggiungere i 90 milioni della possibile vendita del 18% (l’intera quota comunale) della società stradale Serravalle, inserita tra le "intenzioni" di quest’anno ma per ora non scontata.

Le partecipate più ricche, e più spolpate, sono sempre le stesse: la multiutility A2A (che ad ogni assegno per Milano ne corrisponde uno paritetico per il Comune di Brescia, che con Milano controlla la società); la Sea, società aeroportuale di Linate e Malpensa; la società di trasporti cittadina Atm. Poi, a rotazione, qualche piccolo contributo viene da altrove. Anche dalla controllata Metropolitana milanese, che gestisce in house il servizio idrico, a cui non può chiedere esplicitamente parte della tariffa ma da cui riceve 13 milioni (dato 2009, nel 2008 erano 18 milioni) sotto forma di altre voci, come l’affitto dei locali.

Il punto di vista di Palazzo Marino è chiaro: a mali estremi, estremi rimedi. Se lo Stato taglia e il bisogno di servizi cresce, da qualche parte bisognerà pur attingere risorse. E se non si è in grado di tagliare e risparmiare, allora ci sono sempre le partecipate.

La tendenza a Milano sta diventando preoccupante: il bilancio previsionale 2011 mostra qualche anomalia nella gestione delle società satellite. Quest’anno, per la prima volta, 160 milioni di dividendi ed extradividendi ricevuti da una partecipata, la Sea, non andranno in conto capitale, e cioè a finanziare gli investimenti, ma probabilmente serviranno tutti a coprire le spese ordinarie della macchina comunale.

La Sea dovrebbe recuperare parte di quelle risorse (40 milioni di dividendi più altri 120 milioni recuperati dalle riserve) quotando il 35% circa del capitale, operazione deliberata da Palazzo Marino e che dovrebbe permettere alla società aeroportuale di raccogliere sul mercato almeno 400 milioni. Tuttavia, sul fronte comunale, la domanda sorge spontanea: trattandosi di un incasso una tantum, come farà Palazzo Marino a far tornare i conti nel 2012?

Seconda anomalia: nel tempo sono state richieste risorse anche a società che avrebbero avuto bisogno di tenersele in cassa per far fronte a debiti e progetti di sviluppo. Sul fronte aziendale, il continuo drenaggio da parte degli azionisti ha costituito un fattore di appesantimento, sia perché ha depauperato le aziende sia perché ha diminuito la capacità di investire. È così accaduto che dal 2005 al 2009 il patrimonio netto della Sea diminuisse di 129 milioni, quello di Atm di 51; dal 2007 al 2009 quello di A2A di 382 milioni. Proprio la multiutility quotata a Piazza Affari è un caso di scuola. In tre anni, 2008 al 2010, il titolo è passato da tre a un euro, eppure i Comuni azionisti non hanno mai smesso d’incassare la loro cedola.

Nell’ultimo anno si è parlato della necessità di riorganizzare strategie e obiettivi, quantomeno per evitare sovrapposizioni nella gestione dei servizi pubblici e permettere sinergie. Circa un anno e mezzo fa si cominciò a parlare di una holding che riunisse e controllasse le partecipate, finalizzata a eliminare sprechi e ottimizzare le uscite fiscali. Il progetto era stato elaborato dall’ex direttore generale di Milano Giuseppe Sala. Poi, una volta che il manager ha lasciato il Comune per ricoprire l’incarico di ad di Expo, l’idea è stata dimenticata .

Le partecipate si dividono tra quelle che aiutano il Comune e quelle che hanno bisogno di essere aiutate. Le prime le abbiamo viste. Le seconde sono le società più piccole che hanno o hanno avuto problemi di contabilità (e non solo) per una gestione poco manageriale. Il caso che più ha fatto parlare negli ultimi due anni è stato quello di Zincar, fallita per bancarotta fraudolenta con un buco che si aggira intorno ai 23 milioni, su cui la procura di Milano ha aperto nel 2009 un’indagine, ancora in corso.

Anche se in misura minore, Zincar non è la sola ad aver avuto difficoltà. Ogni anno Milano Sport chiude con una perdita di 7-8 milioni, su cui interviene il Comune. Sogemi ha rischiato il fallimento ed è stata risanata con un intervento d’emergenza; nel 2008 il rosso di Milano Ristorazione era di 1,2 milioni.

A dimostrare che i criteri comunali di gestione non sono sempre appropriati, c’è il più famoso caso della cessione di Metroweb al fondo Sterling Square da parte di Aem (oggi A2A), controllata da Palazzo Marino. Nel 2007 il Comune di Milano dette il via libera alla vendita della società proprietaria di una delle più capillari reti di fibra ottica al mondo, con uno sconto del 70% rispetto a quanto Aem l’aveva valutata tre anni prima. Pochi mesi dopo la cessione, Metroweb affittò una piccola parte della sua fibra a Telecom a un prezzo quasi doppio rispetto a quello di acquisto dell’azienda. Ora il fondo sta vendendo Metroweb ad un valore 8 volte più alto quello di acquisto (250 milioni, più i debiti di 175 milioni).

Uno dei motivi per cui le gestioni societarie non sono sempre improntate alla managerialità potrebbe dipendere dal fatto che nei cda non ci finiscono solo dei manager, ma anche dei politici. Il Comune nomina membri in sua rappresentanza, e spesso si tratta di uomini di fiducia eletti in consiglio comunale, e talvolta non eletti, dato che le poltrone vengono utilizzate anche come forme di risarcimento per il mancato incarico.

Ora, a rendere più complicata la sovrapposizione tra incarichi politici e societari, ci sarebbe il decreto attuativo della Finanziaria 2008, entrato in vigore dallo scorso agosto. Sostanzialmente, si chiede ai diretti interessati di fare una scelta tra le due attività: o si è politici, o si è manager.

Chi si candida adesso deve lasciare un eventuale incarico in una partecipata comunale; chi è già stato eletto negli ultimi tre anni non può entrare in un cda. Ma siccome la legge nasconde nelle sue pieghe le eccezioni, le società possono dare diverse interpretazioni. Casi emblematici sono quelli dei due assessori uscenti: Bruno Simini e Maurizio Cadeo, per i quali era già prevista la presidenza di Amsa (controllata di A2A) e che per questo hanno rinunciato alla candidatura nel 2011. La multiutility ha però espresso un parere contrario, e loro sono rimasti momentaneamente a piedi. Tuttavia, secondo fonti vicine al Comune, lo stesso sindaco avrebbe preso contatto con altri avvocati per avere qualche opinione più confortante e aggirare il diniego. A conferma che anche nel mondo delle partecipate vale il principio "fatta la legge, trovato l’inganno".