Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 08/05/2011, 8 maggio 2011
«NICHILISTA? NO, SONO UN PATRIOTA»
Non gli piacciono le definizioni e si capisce. A 83 anni, Guido Ceronetti ne ha sentite troppe sul suo conto e preferisce ricordare le parole del poeta francese Paul Valéry: nessun uomo è uguale alla somma delle sue apparenze. Le apparenze che hanno visto in lui sono via via quelle dell’apocalittico, del nichilista, dell’antimoderno: «Ma per carità! L’aggettivo "apocalittico"va radiato dal dizionario. Siamo con l’acqua inquinata alla gola, figurarsi... Tuttavia l’ottimista è duro a morire e farebbe bene a finire in mano ai cannibali. Nichilista? C’è una mostruosa improprietà nel linguaggio, viene quasi da ridere. Antimoderno neanche, non è così semplice. I luoghi comuni, non le parole, sono la mia bestia nera. L’italiano unificato è un tessuto di luoghi comuni, sempre più povero di sangue e di metafore» . Adesso però, che lo voglia o no, al poeta, al traduttore, al filosofo, all’esegeta, al drammaturgo, al teatrante, al giornalista, va aggiunto il romanziere. Perché Ceronetti ha scritto un romanzo, In un amore felice. Forse sarebbe disposto ad accettare, per questa sua anomalia, una definizione: appendice umana della Torino magica e occulta. Vi è contenuta l’umanità del vecchio Aris, che si innamora, ricambiato, della trentenne Ada, una sensitiva che talvolta vede prima quel che accadrà. Siamo nel ’ 57, in una città portuale, mentre nel grande mondo si verificano apparizioni di Ufo. «Non raccontiamo tutto, se no al lettore non rimane niente» scherza Ceronetti, seduto in un vecchio caffè di Torino, sotto i portici di via Po, e deluso del suo gelato pomeridiano: «Peccato, quello veramente super è altrove» .
Un paio di cose ancora, su questa nuova esperienza. Perché l’idea di scrivere un romanzo? «Intanto, è un unicum che non vuole ripetizioni. In genere mi occupo molto di filologie e di filosofie, ma di invenzione poetica, in quel che ho scritto, ne trovi dappertutto. Il romanzo è nato da ore di noia passate in clinica per una riabilitazione. Mi trovavo a Novaggio, in Svizzera, mi annoiavo, si avvicinava l’autunno e mi sono detto: mi metto a scrivere qualcosa che mi salvi dalla depressione. Io sono essenzialmente uno scrittore umorista e satirico, il che è poi meglio per parlar male dell’uomo in generale: il mio satirico di riferimento è stato Giovenale, che ho tradotto intero. E Orazio l’ho battuto sempre. Tanta vita là. Insomma, la scrittura del romanzo mi ha occupato per quasi un anno» . Con divertimento? «Piacere me ne ha dato, anche se per un altro anno ho dovuto lavorare sulle bozze. Però non ho mai amato scrivere romanzi, non è il mio genere: ci sono troppi fantasmi, di fronte ai quali bisogna solo inchinarsi. Dostoevskij, Tolstoj, Flaubert, Stendhal, Conrad. E Zola, che è stato ultrafondamentale. Tanto Zola mi ha transitato, negli anni. Ora meno; a volte mi nauseava e lo mollavo per un po’. E Céline, amato sempre, soprattutto il Viaggio» .
Aris potrebbe essere l’alter ego di Ceronetti? «Per carità, non sono io, anche se alcune cose potrebbero sembrare mie: per esempio, lui è un uomo coraggioso e io sono un pauroso di professione, però sono coraggioso un po’ nelle idee. Il romanzo è venuto così, in modo rapsodico. Sono partito per scrivere la storia di un amore felice, perché mi causava un vero disagio il pensiero che gli amori siano quasi tutti infelici. C’è una dimensione ufologica ma non è certo una storia di fantascienza» . Mai più romanzi? «Mio caro, ho quasi 84 anni... Scribacchio ancora qualcosa e ho dato a Einaudi un altro libro che si intitola Ti saluto, mio secolo crudele. Sono vicende del XX secolo, che mi appassiona e che anche nel romanzo ha una buona parte» . Da parecchi anni, per camminare Ceronetti ha bisogno di attrezzi adeguati e se possibile del braccio di qualcuno che lo sostenga. Come si vive a questa età? «Mi trovo male, malissimo, detesto la vecchiaia, la detesto! Al mio protagonista Aris succedono delle cose non facili, incontra il suo amore giovane, forse anche grazie alla sua vecchiaia. Sai com’è, può succedere. Lui non è stato un uomo felice, ma almeno gli ho fatto vivere un amore intensamente felice» . A Ceronetti è successo? «No, doni così sono appena immaginabili. Si salva sempre qualcosa, anche in vecchiaia: io per esempio ho letto i Karamazov a 64-65 anni. È un dono, scoprire i grandi libri in vecchiaia quando sei stufo di banalità; sono enormi bacini di energie mentali. Vicino ai sessant’anni, ho letto per la prima volta La Gerusalemme liberata e ne ho avuta una folgorazione: ero a Terracina un’estate con mia moglie Erica, mangiavamo solo fragole, vere, fragole, e non ricordo altro, se non La Gerusalemme liberata. Fu un momento incomparabile. Ma la tarda vecchiaia è il corpo che se ne va in malora e ti affatica a morte, ti cresce il terrore di vivere, sei stufo di recitare l’abbandonato» .
A proposito di letture. Il momento migliore per leggere resta la prima mattina? «Nel corso della giornata faccio altro e via via le cure fisiche hanno preso un posto enorme. La sera, mi vengono giù le palpebre. I grandi romanzi li ho letti con rapidità per pura passione. Comunque, è bello leggere le grandi opere in vecchiaia, anche perché sei più in grado di capirle» . Conta più l’esistenza o la letteratura? «Io non ho vissuto di sole parole, l’esistenza ha contato di più, diciamo che la parola stampata mi è servita, ma solo quando poteva essere trasformata in molecole di vita» . Le molecole di vita nei ricordi di Ceronetti sono infinite. Ritiene di aver vissuto vite anteriori, ma non gli piace l’autobiografia. Tuttavia ha scritto un ritratto memorabile di suo padre, un torinese tipo, classe 1894, che fece del «non disturbare» il suo principio e che non si allontanò dalla sua città, a differenza del figlio Guido, che dal ’ 59 ha vissuto a Parigi, poi a Roma, ad Albano Laziale (dove è nato il suo teatro di marionette), per approdare in Toscana. Ma i dati della biografia, nelle sue parole, si trasformano in idee più che in aneddoti: «Sono sempre stato anticomunista, sempre... Forse, subito dopo la guerra ho avuto una certa simpatia, però non mi sono iscritto al partito il giorno dopo aver visto La corazzata Potemkin, come innumerevoli giovani. Antifascista non è neanche da dire, da quando ci si è risvegliati, l’ 8 settembre. Di quel periodo non ho voglia di parlarne, ero tra i soliti ragazzini stupidoni che andavano alle adunate, ma non c’è storia di anima o di pensiero o di famiglia che riguardi il fascismo. I miei non erano fascisti né antifascisti, erano bravi cittadini come tanti. Mio padre ha fatto tutta la Grande Guerra, ha vissuto Caporetto e il Piave, detestava Cadorna. Incontrò mia madre, che era cassiera in un cinemino, andando a vedere i film muti» .
Torinese come loro anche Guido, ma soprattutto italiano, come il suo romanzo, che porta infatti un sottotitolo da interpretare: Romanzo in lingua italiana. «Aborrisco essere definito scrittore torinese — dice — e anche più uno scrittore padano. Scrivendo in italiano, sono uno scrittore italiano! Da quanto leggo sui giornali le mie sofferenze per il fantasma animato Italia stanno toccando veramente limiti estremi. Ripeto spesso un verso di Miguel Hernández: "Me duele a España". A me duole l’Italia: è un destino dell’Italia il dolere, perché dell’Italia importa l’anima, l’Italia è metafisicamente importante, e qui lo sfregio lo risenti visceralmente. Mi considero un patriota del Risorgimento anche se non espongo la bandiera: la verità è che bisogna soffrire per l’Italia e con l’Italia anche se si è stranieri. Il mio Viaggio in Italia è una testimonianza per l’Italia di un italista. Posso dirmi un italista» .
Un italista vegetariano da (quasi) sempre. Forse uno dei primi italiani-italisti ambientalisti e vegetariani integrali: «Sì, in effetti è un bel po’ d’anni, dal ’ 57, che sono vegetariano. Fu l’amicizia con Aldo Capitini e con il suo gruppo perugino-marchigiano-romano di tolstojani e bahai (tra cui Alessandro Bausani), a convincermi facilmente e a introdurmi nell’animalismo. Il termine "vegetariano"mi era noto, ma restava vagamente culturale. Sento tuttora con orgoglio la superiorità del vegetariano su qualunque tipo di mangiatore. Leonardo parlava dell’uomo come transito di alimenti, ma almeno non di animali morti... Neanche il pesce l’ho mai mangiato in vita mia, già prima di nascere ero ittiofobo. Forse in una vita precedente avrò fatto indigestione di bouillabaisse» ! Certamente il profumo di vere fragole di bosco è un’altra cosa.
Paolo Di Stefano