Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 08/05/2011, 8 maggio 2011
«UN ERRORE DELEGITTIMARE I MAGISTRATI. LA LEZIONE DI SACRIFICIO DI MIO PADRE» — C’è
una casa a Milano, a metà strada fra Città Studi e il palazzo di giustizia, dove si respira memoria. È la casa da cui il pomeriggio del 19 marzo 1980 uscì il giudice istruttore Guido Galli, per andare all’università e poi in tribunale; alle 16,50, in un corridoio della Statale, un commando di Prima linea lo uccise mentre si accingeva a tenere la sua lezione di Criminologia. Aveva 47 anni. In questa casa, trentuno anni dopo, la signora Bianca, vedova elegante e fiera del giudice Galli, conserva ancora le riviste giuridiche che compulsava il marito, insieme a tanti altri ricordi. E dice, con una punta di orgoglio discreto: «Tante volte ho potuto constatare, con altri coniugi delle persone colpite, che i nostri figli sono venuti su bene, nel solco di padri che evidentemente avevano seminato qualcosa di buono» . All’ora di pranzo arriva Alessandra Galli, 51 anni, giudice a Milano come sua sorella Carla. In queste stanze, nell’estate del 1979, Alessandra preparava l’esame di maturità mentre suo padre Guido lavorava al rinvio a giudizio di Corrado Alunni e altri capi di Prima Linea: «La sera lo vedevo confrontare con grande attenzione le diverse calligrafie sui manoscritti sequestrati, per scoprire a chi dovevano essere attribuiti; ci si dedicava con un entusiasmo e uno scrupolo che mi rimasero impressi, e probabilmente sono risultati per me contagiosi» . Domani si celebra la giornata della memoria delle vittime del terrorismo, dedicata quest’anno alle toghe cadute sotto il piombo dei sovversivi. La signora Bianca sarà al Quirinale, per partecipare alla cerimonia. Alessandra andò lo scorso anno, e fece un intervento che destò attenzione: «La magistratura di oggi è figlia di quella del tempo di mio padre, e io non riesco ad accettare la costante denigrazione del suo e ora del mio lavoro, del suo e ora del mio ruolo istituzionale. Dobbiamo dare l’esempio, specie chi ricopre alte cariche, e coltivare il vizio della memoria» . È ciò che questa giudice figlia di giudice pensa ancora oggi, al tempo dello slogan «Fuori le Br dalle Procure» . Su quella vicenda preferisce tacere per non alimentare polemiche, ma suo fratello Giuseppe ha scritto una lettera al Corriere per definire «infamanti» quei manifesti e ricordare il lavoro svolto ogni giorno dalle sue sorelle e dagli altri magistrati «per permettere a tutti noi di poter vivere in un Paese giusto, libero democratico» . Alessandra non ne sapeva niente: «L’ho letta sul giornale e mi sono commossa, è una bella lettera» . Sorride. Poi torna seria: «L’idea di una magistratura consapevole di rappresentare un baluardo della democrazia, della tenuta delle istituzioni, ha preso piede ai tempi di mio padre ed è ancora oggi molto presente. Allora le derive a cui resistere erano di un certo tipo, oggi di un altro, ma i principi da difendere sono gli stessi. Adesso però c’è un sentimento diffuso di delegittimazione della categoria, che parte dalla classe politica e arriva alla gente comune, e sinceramente mi sconcerta, come giudice e come cittadino» . Le polemiche sulla magistratura sono all’ordine del giorno, e la figlia del magistrato ammazzato da Prima Linea ricorda: «I terroristi che rivendicarono l’omicidio di mio padre lo accusavano di essere un riformista che voleva far funzionare l’ufficio istruzione di Milano. Assurdo, no? Mi fa pensare che c’è sempre qualcuno che vuole che la giustizia non funzioni, ieri come oggi. Sento parlare di riforme che certo non aiuterebbero il nostro lavoro e porterebbero i magistrati ad essere dei burocrati, preoccupati dei fascicoli e non delle persone e delle storie contenute nelle carte di un processo» . Non che tra le toghe non ci siano disfunzioni e problemi: «Abbiamo tante pecche, ma non è con la delegittimazione che si possono sanare. Anzi, il continuo attacco esterno porta la magistratura a chiudersi in se stessa e non riflettere sui propri limiti, come invece dovrebbe essere. Si assiste a processi mediatici in cui i giudici finiscono sotto accusa e questo alimenta una sfiducia che diventa un luogo comune, mentre i cittadini dovrebbero fare affidamento su chi è chiamato a dirimere controversie, a stabilire se un imputato è innocente o colpevole. Se salta questo, rischia di saltare tutto il sistema» . Coltivare la memoria, per la figlia del giudice assassinato, è importante. La memoria collettiva e quella privata: «Il flusso continuo di eventi e informazioni, sui temi più disparati, rischia di provocare l’oblio delle persone e delle storie. Per questo credo sia giusto ricordare» . Anche per scoprire particolari significativi: «Entrando in contatto con altri familiari delle persone colpite dal terrorismo mi sono accorta che abbiamo lo stesso tipo di ricordi, conserviamo gli stessi frammenti di vita quotidiana. Dei nostri padri sono rimaste incise le stesse immagini di persone comuni, normalissime, che non pensavano affatto di essere degli eroi, né volevano esserlo, ma solo uomini che cercavano di svolgere bene il proprio compito. Mio padre, come quasi tutte le altre vittime, non aveva niente di eccezionale, se non la dedizione al lavoro» . Come le altre vittime, per i suoi assassini era solo un simbolo: i terroristi hanno sempre spiegato che sparavano alle toghe, alle divise, ai ruoli delle persone uccise, non agli uomini, ai mariti o ai padri di famiglia. Dietro ogni omicidio o ferimento c’era la spersonalizzazione del bersaglio. «Ma quando ho scoperto i particolari dei pedinamenti e degli appostamenti qui sotto casa per aspettare mio padre -commenta Alessandra Galli -, o seguirlo nei suoi percorsi, ho pensato che osservando le sue abitudini hanno avuto molte occasioni di vedere l’uomo, non solo il magistrato. Hanno voluto passargli sopra, annullare, sterilizzare quella figura per far risaltare l’obiettivo da combattere e abbattere» . Oggi, a trent’anni dalla stagione del piombo e del sangue, quasi tutti i terroristi arrestati e condannati all’ergastolo sono stati riammessi a vite normali, scarcerati e liberi. Per la giudice figlia di giudice «è la legge che ha permesso questo, norme che hanno avuto effetti positivi. Allora va bene così. Mi auguro che siano davvero persone recuperate, che abbiamo cambiato il loro approccio alla realtà, al di là del contesto mutato rispetto a trent’anni fa. Ma io non sono solo un giudice e un cittadino, che può ragionare a mente fredda. Sono anche la figlia di una vittima. E allora, da un lato credo che queste persone dovrebbero evitare atteggiamenti da protagonisti, per dignità e rispetto altrui; dall’altro mi auguro di non doverle mai incontrare, perché per me resteranno sempre quelle che ho dovuto vedere dietro le sbarre delle gabbie, al processo per l’omicidio di mio padre. Ritrovarmeli davanti, magari come oratori a un convegno in giacca cravatta, un po’ mi disturberebbe molto, e non so che reazione potrei avere. Capisco che è un loro diritto, ma a me personalmente dà fastidio. Poi è chiaro che, da persone libere, possono fare quello che vogliono» . Svuotate o quasi le carceri, il capitolo terrorismo è praticamente chiuso sul piano giudiziario. «Ma spero che questo non porti a dimenticare» , è l’altro commento di Alessandra Galli, che ha da aggiungere un motivo in più per continuare a coltivare la memoria: «Il ricordo di quegli anni terribili, di come il Paese è saputo uscirne grazie al lavoro della magistratura ma anche grazie all’atteggiamento della società civile e della stessa classe politica, potrebbe essere un monito valido per affrontare le situazioni di oggi. Non è vero che le realtà contingenti sono immutabili. Se si è riusciti allora a venir fuori da una crisi tanto profonda, a voltare pagina, significa che può accadere anche oggi, di fronte a problemi diversi e in fondo meno drammatici» . Così si ragiona nella casa dove visse il giudice Guido Galli, alla vigilia della giornata dedicata al ricordo delle vittime del terrorismo. Sono discorsi che sembrano tramandati da padre a figlia, anche se Alessandra Galli non vuole avventurarsi ad immaginare che cosa direbbe il suo papà se fosse arrivato a vivere i nostri giorni. «Di certo era uno che non amava i magistrati protagonisti -dice -. Ma era anche uno che non gradiva e anzi rifiutava il ruolo del magistrato burocrate, e quando c’era da difendere certe posizioni non ebbe paura di contestare le decisioni e le posizioni dei dirigenti degli uffici» . Anche per queste sue caratteristiche i soldati di Prima Linea decisero eliminarlo. Le strade fra Città Studi e il palazzo di giustizia pullulano di targhe in memoria di persone che vissero qui e morirono durante la guerra di liberazione dal nazi-fascismo, o nei campi di concentramento. Forse arriverà il tempo in cui le lapidi sui muri delle case celebreranno anche vittime più recenti, cadute in un’altra guerra proclamata da una parte sola. Persone normali, come Guido Galli e gli altri magistrati assassinati dai terroristi. Tre giorni prima che toccasse a lui, domenica 16 marzo 1980, un gruppo di aspiranti brigatisti uccise il procuratore di Salerno Nicola Giacumbi, appena uscito dal cinema. E il 18 marzo, a Roma, un commando delle Br ammazzò il giudice appena designato alla direzione generale delle carceri, Girolamo Minervini, a bordo dell’autobus che lo portava in ufficio. Anche a Guido Galli piaceva andare al cinema, sebbene gliene mancasse il tempo. E prendeva spesso l’autobus.
Giovanni Bianconi