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 2011  maggio 08 Domenica calendario

L’EUROPA E LA DIFESA CHE NON C’È

Vent’anni dopo la rivolta slovena che diede il via ai conflitti etnici balcanici e fece emergere l’incapacità dell’Europa di gestire un intervento militare senza il supporto di Washington, la crisi libica ripropone un contesto nel quale né la Ue né la cosiddetta "Nato europea" sembrano in grado di risolvere l’ennesima crisi nel cortile di casa. «Non esiste un’Europa militare perché non esiste un’Europa politica e la crisi in Libia dimostra la tendenza alla rinazionalizzazione del continente», sostiene Germano Dottori, analista strategico, consulente parlamentare e cultore di Studi strategici presso la Luiss-Guido Carli. «Venuta meno la minaccia sovietica, gli europei sono rimasti legati alla leadership statunitense, ma ora che Washington si distacca dall’Europa ogni Paese persegue un’agenda nazionale».

Non si tratta solo di volontà politiche raramente convergenti tra i partner ma anche di concrete capacità militari. Nel 2008 Rudolf Adam, direttore del Centro Federale di studi sulla politica di sicurezza tedesco, sottolineò come i Paesi della Ue disponessero di due milioni di militari, cioè più della Russia (1,2 milioni) e degli Stati Uniti (1,5 milioni) e poco meno della Cina (2,2 milioni) ma erano in grado di schierarne oltremare solo poche migliaia, mentre la capacità di combattimento è pari al 10% di quelle statunitensi. Nello stesso anno la Difesa francese riferì che la Ue superava gli americani per numero di abitanti (490 milioni contro 300), di soldati e per Pil (12mila e 200 miliardi contro 11,8) ma spendeva per la Difesa 160 miliardi di euro contro i 440 del bilancio del Pentagono nel 2007. Gli Usa dedicavano alla ricerca 67 miliardi di dollari contro appena 11 degli europei, per tre quarti stanziati da Londra e Parigi.

Negli ultimi anni il divario è divenuto ancora più ampio a causa dei drastici tagli alla Difesa operati in Europa che hanno penalizzato soprattutto addestramento e capacità operative. Il problema non è solo che gli europei spendono poco per la Difesa ma che, tutti insieme, spendono male creando duplicati invece di sanare comuni carenze.

L’Italia, con meno dell’1% del Pil destinato alla Difesa, oggi non verrebbe neppure ammessa nella Nato che chiede ai nuovi partner almeno il 2 per cento. L’anno scorso il segretario alla Difesa statunitense Robert Gates ammise di non capacitarsi di come «con due milioni di soldati i Paesi europei non riescano a schierarne più di 40mila in Afghanistan», dove su 132mila militari alleati presenti oggi ben 90mila sono americani e dei 37 contingenti europei solo sette contano più di mille militari.

Il teatro afghano, ancor prima del conflitto libico, ha evidenziato i limiti delle capacità europee che avevano già portato a rinunciare all’ambizioso Corpo di Reazione Rapida da 60mila effettivi pianificato nel 1998 per attivare piccoli battlegroup da 1.500 militari da impiegare in operazioni umanitarie o di peacekeeping. «Non ha senso creare forze armate europee per farle gestire da un organismo solo tecnico - sottolinea Dottori –; occorre un reale potere sovrano, legittimato all’uso della forza. Anche la componente europea della Nato abbiamo visto quanto valga senza gli Stati Uniti».

Invece per il generale Carlo Cabigiosu, che guidò le truppe alleate in Kosovo e oggi è senior mentor della Nato e membro della Fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analisys) «la strada di una maggiore efficienza militare andrebbe perseguita potenziando l’impegno europeo nella Nato, organizzazione già collaudata e affidabile. L’Europa non è in grado di gestire operazioni complesse, non ha una struttura d’intelligence e per costituirla dovrebbe fondere i contributi dei servizi dei singoli partner in un sistema condiviso che oggi non esiste. Non ha neppure strutture di pianificazione o di comando e controllo collaudate. Basti pensare che la Nato ha potuto assumere il controllo delle operazioni sulla Libia in pochissimi giorni, mentre una struttura europea ad hoc avrebbe avuto bisogno di almeno un mese per costituirsi. Del resto le truppe e i mezzi messi in campo dai singoli Paesi sono gli stessi con comando Ue o Nato».

Secondo il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica, protagonista del conflitto in Kosovo e fondatore dalla Fondazione Icsa, «l’Europa è stata il "danno collaterale" più importante della guerra libica. Il bizzarro bellicismo di Nicolas Sarkozy ha compromesso 12 anni di faticosi tentativi di costruire un’identità europea della Difesa, accettata anche dagli Usa. L’intervento della Nato ha in parte sanato la frattura, ma il ritiro statunitense dalle operazioni d’attacco ha smascherato la pochezza europea».

Più drastico l’analista strategico Alessandro Politi: «L’Europa non esiste. Ci sono strutture comuni gestite da apparati dietro i quali c’è un mosaico di 27 Paesi, ognuno con i propri interessi nazionali. Francia, Gran Bretagna e Germania sono responsabili della mancata integrazione degli strumenti militari in campo industriale e in campo logistico-militare».

Le limitate capacità espresse dagli europei sono evidenziate dal fatto che l’Italia non sia in grado di schierare all’estero più di 7/8 mila militari sui 180mila che compongono le forze armate, dei quali 113 mila dell’esercito. In Afghanistan, i militari francesi sono 3.500 sui 160mila dell’Armée de Terre, gli spagnoli 1.600 su 75mila dell’Ejercito de Tierra e i tedeschi 5mila sui 190mila della Heer. Un’eccezione è costituita dai britannici, che con un esercito di poco più di 100mila unità ne schierano oggi 9.500 in Afghanistan, e altri 35mila nelle guarnigioni oltremare.

Anche sul versante dei mezzi aerei la situazione europea è imbarazzante: dei 4mila elicotteri militari disponibili, solo una sessantina sono in Afghanistan insieme a una trentina dei quasi 3mila jet da combattimento europei, dei quali neppure un centinaio vengono impiegati nelle operazioni sulla Libia (e di questi meno della metà sono autorizzati ad attaccare al suolo le forze di Gheddafi).

Ma forse a Tripoli l’Europa potrebbe ancora riscattare un ruolo militare di primo piano. «La crisi libica costituisce un’opportunità concreta per l’Europa, specie ora che gli Stati Uniti si sono defilati, per dimostrare capacità e determinazione in campo militare superando condizionamenti politici, sociali e culturali», sostiene l’ammiraglio Giuseppe Lertora, già comandante della Squadra navale e della forza marittima Euromarfor. «Da tempo esistono programmi d’integrazione in campo navale tra gruppi di portaerei che puntano alla interoperabilità, cioè alla possibilità che aerei di una nazionalità operino a bordo di portaerei di altri Paesi. Nell’ipotesi che la drammatica situazione umanitaria di Misurata richieda un intervento terrestre, gli europei possono mobilitare una consistente forza anfibia».

Dopo il ritiro dei 90 jet statunitensi, a inizio aprile, la campagna aerea alleata ha subito un forte rallentamento lamentato più volte dagli insorti libici. «Sulla scarsa efficacia europea nella campagna militare libica influiscono anche limitazioni dovute ai tagli ai bilanci della Difesa - sostiene Politi - ma questa operazione costituisce l’ultimo appello dalla crisi jugoslava del 1991 perché i più importanti Paesi europei, inclusa la Svezia, adottino sistemi d’arma standardizzati». Un tema sul quale entrano in gioco anche interessi legati alle commesse all’industria nazionale e ai livelli occupazionali spesso preponderanti rispetto all’esigenza di standardizzazione europea, tesa a ridurre costi e duplicati e a produrre maggiore efficienza.

«Il perseguimento d’interessi nazionali a scapito di quelli comunitari ha portato gli europei a disporre di singole forze aeree squilibrate che messe insieme non ne fanno una completa – aggiunge Tricarico –. Tutti hanno un certo numero di caccia e cacciabombardieri, ma siamo privi di velivoli teleguidati armati o aerei da trasporto strategico e carenti nelle componenti tanker, per il controllo elettronico strategico, nella guerra elettronica». Invece di accentuare le spinte all’integrazione europea, il disimpegno statunitense sembra al contrario spingere i Paesi del Vecchio continente a muoversi in ordine sparso o a cercare partnership bilaterali come l’intesa franco-britannica siglata nel novembre scorso sulla base di una strettissima cooperazione strategica e industriale, già in parte evidente nella leadership espressa nella gestione della crisi libica. Per Tricarico «Francia e Gran Bretagna hanno intrapreso la strada giusta della cooperazione rafforzata per irrobustire le capacità operative, ma il metodo adottato non è condivisibile perché emargina gli altri partner europei. L’intesa bilaterale prevede un’integrazione industriale che rischia di emarginare gli altri Paesi, Italia inclusa».

La debolezza europea «non può ridursi solo a un mero problema di finanze assegnate - sostiene Lertora -: la vera ragione è di ordine culturale, legata ai campanilismi nazionali che ci allontanano da una vision comune del sistema Difesa».