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 2011  maggio 08 Domenica calendario

ABU DHABI GUARDA AL DI LÀ DEL PETROLIO

Sembrano formiche, da lontano. Ma sono ruspe, decine di ruspe che aggrediscono e livellano in poche ore le alte dune del Rub al-Khali. Dalla sabbia del deserto più deserto del mondo, a 180 km da Abu Dhabi città, sta prendendo corpo un altro progetto monumentale da 10 miliardi di dollari. È lo Shah Gas Field, che permetterà all’unico produttore di greggio fra i cinque dell’Unione degli Emirati Arabi di risparmiare petrolio prezioso.

Dato il barile di greggio, la quantità equivalente di gas ne costa solo il 25%. L’obiettivo di tutti i Paesi produttori del Golfo è lo stesso: avere cura del petrolio fino all’ultima goccia. Lo spiega con semplicità Saleh al-Awaji, il vice ministro dell’Elettricità dell’Arabia Saudita che sulle energie alternative sta investendo 100 miliardi di dollari: «La nostra politica è lavorare intensamente per risparmiare energia e garantire che ogni barile di petrolio sia usato per l’esportazione». Sviluppando fonti alternative i sauditi terrebbero da conto per i mercati anche gli 800mila barili che ogni giorno consumano per le loro necessità energetiche.

Perché nessuno è certo che esista una vita oltre il petrolio. È sempre questa la risorsa su cui i Paesi della regione stanno costruendo il futuro. Ma Kuwait e Iran hanno raggiunto il loro picco produttivo l’anno scorso e non potranno mantenere lo stesso livello oltre il 2050. L’Arabia raggiungerà il limite fra tre anni ma con le sue riserve provate da 262 miliardi di barili e la domanda crescente fra 30 sarà costretta a diminuire la produzione, secondo uno studio di Chatham House. Fino al giorno, attorno al 2050, in cui smetterà di esportare. Per questo stanno investendo 400 miliardi in infrastrutture. Abu Dhabi, che ha riserve solo per 98 miliardi di barili, ha iniziato a trasformare la sua economia da tempo.

«La mia ferma convinzione è che l’ultimo barile di petrolio sarà saudita», sostiene Ali al-Naimi, ministro del Petrolio saudita. Un’affermazione orgogliosa ma anche l’ammissione che prima o poi la festa finirà. È dunque già iniziata la vita dopo il petrolio? Bassam Fattouh, economista alla Soas di Londra, è perplesso: «Nonostante lo sforzo di ridurne la dipendenza, gli idrocarburi continuano a dominare le economie del Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati e Oman, n.d.r.). In termini di Pil il petrolio è sempre almeno il 50%. La maggior parte delle esportazioni sono idrocarburi; il resto prodotti petrolchimici che dipendono sempre dagli idrocarburi». Un barile a 60 dollari convertito in prodotti petrolchimici ne vale 200.

«L’escremento del diavolo», come lo definì il venezuelano Jan Pablo Perez Alfonzo, uno dei fondatori dell’Opec, è benessere ma anche origine della debolezza sociale, culturale e politica della regione. Le società civili arabe sono state come ibernate dal facile arricchimento, rinunciando alla fatica delle riforme: eccetto l’Africa sub-sahariana e l’Asia del Sud, il Medio Oriente è la regione dove è più difficile fare business. E dove esiste il più grande gruppo di giovani disoccupati. Ogni anno 40 milioni di arabi fra i 15 e i 29 anni entrano nel mercato del lavoro e il 25% resta senza un posto né la prospettiva di averlo: la media mondiale è del 14 per cento.

Il petrolio nel mondo arabo è come l’oro nel Nuovo Mondo che 400 anni fa sollevò fantasie imperiali, distrusse le civiltà locali e non creò alcuna prosperità di lunga durata. Quaggiù la monumentale ricchezza petrolifera ha impedito la nascita dell’imprenditorialità privata e di una classe media. Anche ora: i governi investono cifre colossali per una vita dopo il petrolio che il business privato locale non può sostenere; in Arabia, Qatar, Emirati, Bahrain, dalle linee aeree alle grandi imprese, è tutto statale. Nella maggioranza dei Paesi del Golfo il 90% degli occupati sono dipendenti dello Stato. Prima che la Primavera politica li risvegliasse, gli arabi avevano perso «i loro attributi di cittadini, diventando solo consumatori - dice Rami Khouri dell’Università americana di Beirut -. Senza la possibilità di influenzare le politiche dei governi, scegliere, convalidare o responsabilizzare i leader. Derubati della loro capacità umana di partecipare, a loro è stato solo concesso di uscire di casa a comprare abiti e telefoni cellulari. Il denominatore comune dell’urbanizzazione araba è lo shopping mall».

Per questo il Golfo non è immune dalla Primavera araba. L’Arabia è «lo Stato meno democratico della regione», per l’Economist Intelligence Unit. Da una quotidianità semplice, quasi nomadica, i sauditi hanno raggiunto il benessere senza passaggi intermedi né optional come classi sociali, libertà, rappresentanza: istanze che ricchezza e scolarizzazione crescenti prima o poi producono. Il 40% di loro naviga su internet: prima che venisse chiuso, un sito dedicato ai detenuti politici è stato visitato 72mila volte in mezza giornata. È la vita vera oltre il petrolio, e non è detto che i miliardi da soli bastino.