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 2011  maggio 09 Lunedì calendario

«Gli anni di piombo pesano ancora» - La violenza di Autonomia Operaia e dei movimenti studenteschi degli anni ’70, l’eversione nera di Franco Freda, le inchie­ste del giudice Pietro Ca­logero, la paura dei professori spran­gati, la rabbia di chi voleva cambia­r­e il mondo ma aveva dei cattivi ma­estri

«Gli anni di piombo pesano ancora» - La violenza di Autonomia Operaia e dei movimenti studenteschi degli anni ’70, l’eversione nera di Franco Freda, le inchie­ste del giudice Pietro Ca­logero, la paura dei professori spran­gati, la rabbia di chi voleva cambia­r­e il mondo ma aveva dei cattivi ma­estri. E ancora, le P38 e le sale del bar Pedrocchi, le stradine medievali di Padova e la guerriglia urbana (scate­nata per scardinare i gangli dello Sta­to a partire da Nord­Est), i morti am­mazzati dalle Brigate rosse e chi è fi­nito in galera aspettando troppo a lungo una sentenza di assoluzione, gli appelli di Radio Sherwood e le fi­nestre chiuse di chi non aveva il co­raggio di guardar fuori. Questo è altro troverete nel libro della giornalista Silvia Giralucci, L’inferno sono gli altri ( Mondadori, pagg. 180, euro 17,50), che arriva in libreria oggi, in coincidenza con il «Giorno della memoria» delle vitti­me del terrorismo. La Giralucci ha vissuto sulla propria pelle gli «anni di piombo» - suo padre Graziano fu ucciso nel ’74 dalle Br durante un as­salto a una sede dell’Msi - e ha svol­to un lungo percorso di ricerca per capire come Padova sia stata travol­ta da quella spirale di violenza. Tutti ricordano il «processo 7 aprile» che ne segno l’inizio della fine.L’ iter giu­diziario, frutto di una lunga indagi­ne del giudice Calogero, ebbe esiti controversi: molte accuse rivolte a Toni Negri e agli altri militanti ven­nero provate ma cadde l’idea di un collegamento diretto con le Br. Silvia Giralucci ha voluto indaga­re e sentire le voci di chi ebbe un ruo­lo in quel dramma. Il risultato è un ritratto a più voci per cercare la veri­tà, senza odio. Ottenuto raccoglien­do in prima persona testimonianze di persone diversissime: il profes­sor Guido Petter che da partigiano si ritrovò accusato di essere «servo dello Stato» e abbattuto a spranga­te, la militante Cecilia Z. che tifava per la rivolta, lo stesso giudice Calo­gero, il giornalista del Mattino Pino Nicotri, accusato di essere l’autore della telefonata che indicava il luo­go dove si trovava il cadavere di Mo­ro. Silvia, perché ha deciso di intra­prendere questa ricerca? «Da bambina, vidi una scritta fuo­ri da casa di mia nonna: “Fuori i compagni del 7 aprile”.Erano argo­menti di cui in casa non si parlava, ma mi è sempre rimasta nella me­moria. Ne­gli anni ho sempre senti­to dire che il 7 aprile 1979 era un tabù. Io ho cercato di capire come si è arrivati lì. Non solo perché sono stata colpita diretta­mente, ma anche perché è una frat­­tura, un non detto che ha coinvolto molti miei coetanei, costretti a fare una scelta di campo senza conosce­re i fatti. Tra vittime delle violenze e imputati del processo non c’è mai stato confronto». Lei si è concentrata soprattutto sulperiodo precedenteil proces­so... «Volevo ricostruire il clima di violenza che ha portato agli arresti del 7 aprile, non la vicen­da giudiziaria. Le accuse da cui To­ni Negri è stato scagionato fanno spesso dimenticare tutti i fatti per i quali lui e altri imputati sono stati considerati colpevoli. Il processo non è stato solo un teorema sulle Br. Io volevo recuperare la memoria del “prima”. Le ragioni delle perso­ne che si sono esposte personal­mente, da una parte e dall’altra...». Il suo libro da questo punto di vi­sta è coraggioso. Mette assieme voci molto diverse. «Sì, credo che molti di quelli che sbagliarono fossero in buona fede, non riuscirono a vedere le conse­guenze delle loro azioni... L’impres­sione più triste che ho avuto è che chi scelse la via della violenza anco­ra adesso a volte non sia riuscito a rielaborare i propri errori. Si limita­no a dire: “di queste storie non vo­glio più parlare...”». E le vittime?Lei dedica molto spa­zio al caso di Guido Petter, parti­giano, aperto ai movimenti del ’68 ma trasformato in bersa­glio... «Guido Petter è il nonno che tutti vorremmo avere. Non ha mai serba­to rancore, eppure ha subìto cose tremende. Nonostante ciò qualcu­no dei militanti di allora è ancora ca­pace di dire che quella verso il pro­fessore era “ironia”. Eppure il suo studio venne distrutto e lui ripetuta­mente aggredito». AncheNicotri,assolto delleaccu­se, ricordando quegli anni ricor­re a espressioni che suonano stranianti come«violenza di clas­se “accettabile”». Fa impressio­ne. O no? «Io le ho riportate come le ha det­te... A molti mancò allora la coscien­za chiara di ciò che stavano facendo e ancora oggi ti ripetono: “Ma era violenza la nostra o quella dello Sta­to?”. Giustificano la violenza per­ché era violenza di massa». È tutta la città di Padova ad aver portato avanti un processo di ri­mozione? «Ancora adesso questa è una città dove un consigliere comunale, del quale non condivido le idee, può fi­nire all’ospedale. È ancora una città in cui ci sono vittime di destra che vengono considerate da molti solo vittime di una parte... Io spero che il mio libro serva a far superare que­sta logica».