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 2011  maggio 09 Lunedì calendario

«SOMMERSO, CASA E FAMIGLIA: L’ITALIA CHE RESISTE». INTERVISTA A DE RITA

«L´Italia è un processo in continua evoluzione. Chi parla di lacerazioni sottovaluta questa incessante trasformazione chimica del nostro corpo sociale: disegnato male fin dall´inizio, forse oggi ancora più storto di allora, ma destinato a cambiare ancora». Da mezzo secolo Giuseppe De Rita si diletta a narrare i fenomeni sociali nazionali. In questa sua veste di analista della ribollente alchimia italiana, niente sembra scuoterlo. È stato lo scopritore dell´economia sommersa, «l´amico degli stracciaroli» come lo chiamavano nei salotti buoni. Ha anticipato la «società dello spettacolo». I suoi neologismi come «cetomedizzazione» hanno segnato il linguaggio politico italiano. Classe 1932, dal suo osservatorio del Censis ha assistito al passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, senza mai venire meno al ruolo rassicurante di «fenomenologo», così gli piace definirsi. «Il mio mestiere consiste nel raccontare il rimescolamento del Paese, un «lavori in corso» che non accenna a chiudersi».
Ma non è anche questa un´eccentricità? L´impossibilità per l´Italia di trovare una fisionomia compiuta.
«Noi abbiamo fatto lo Stato italiano, ma non l´Italia. E lo Stato rappresenta l´Unità, ma la società s´alimenta di diversità. Io ho sempre sentito e continuo a sentire questa società che evolve, che non diventa mai una sola, omogenea, coesa. Una forza, non una debolezza».
Da cosa deriva questa sua inclinazione?
«Ho sempre fatto "società", ancora prima di cominciare a lavorare. In periferia, nelle borgate: scuole per assistenti sociali, forme di collaborazione civica. Poi nel 1955 Pasquale Saraceno alla Svimez m´incaricò di fondare una sezione sociologica. Per quei tempi una follia. Non esisteva ancora una cattedra di sociologia: la prima sarebbe nata con Ferrarotti nel ´62».
Poi Saraceno la licenziò. E da quel licenziamento nacque il Censis.
«È vero in parte. Nel ´63 mi scrisse una lettera in cui mi diceva che non reggeva più il peso dell´azienda. Da qui la decisione di liquidare il nostro gruppo, anche se per me aveva tenuto un posto. A quel punto ci riunimmo: liberi tutti o una nuova avventura? Andai da Saraceno: "Se lei ci cede i contratti, ci mettiamo in proprio". Lui accettò. Fino al ´69 fu davvero dura. Quell´anno finimmo di pagare i debiti, così decidemmo di festeggiare con una cena. Al convivio volle partecipare anche Saraceno. "Ma come?", protestammo. Si considerava il nostro socio fondatore. Se non ci avesse licenziato, non avremmo creato il Censis».
Però i vostri rapporti rimasero tesi.
«Riuscii a perdonarlo solo al suo funerale. Mi tormentavo se fare o no la comunione, e un mio amico mi incoraggiò: "Ma dai, sono passati tanti anni". Alla fine della messa incontrai la vedova, che mi diede una carezza: "Eh, mio marito sapeva essere cattivo con i giovani, specie con lei". Che liberazione: la comunione aveva risolto tutto».
Se dovesse raccontare l´Italia vista dal Censis, qual è stato il momento più esaltante?
«Fu importante il passaggio dalla pianificazione e dalla previsione a lungo termine - questa era la cultura dello Svimez - all´analisi dei fenomeni sociali. La svolta avvenne sul finire dei Sessanta. Il nostro direttore si trasferì a Prato e fu lì che scoprii l´economia sommersa. Tornato a Roma, pensai: "Ammazza, proviamo a vedere se pure qua ci sta il lavoro nero". Non fu difficile scoprirlo. Il direttore dell´Atac mi raccontò del tentativo di spostare uno degli autisti più anziani al turno serale, dalle 18 a mezzanotte. Una tragedia. Era uno di quelli che provvedeva ai fochetti delle prostitute a Tor di Quinto. Cinquemila lire a fochetto. Con una notte di lavoro guadagnava quanto una settimana sull´autobus».
Da programmatori diveniste «fenomenologi».
«Sì, fortunati fottuti. Con gli anni Settanta cominciava la grande fenomenologia italiana».
Che intende?
«In quel decennio s´è raddoppiato lo stock delle aziende: da 490.000 a oltre un milione. Tutti facevano piccola impresa, come noi in fondo avevamo fatto con il Censis. E cominciava la grande avventura di Cernobbio. C´erano Agnelli, Schimberni, Berlusconi che suonava il piano e cantava. Io stavo al tavolo con Andreatta, Colombo e Prodi. Quando arrivavo, l´Avvocato mi accoglieva: "Ecco l´amico degli stracciaroli". Ero considerato altra cosa rispetto a loro, però stavo lì. Ero ammesso come uno che poteva parlare dell´Italia alla stessa stregua di Prodi».
La mandò a chiamare anche Craxi.
«Sì, quando nel ´78 uscì il nostro rapporto sul sommerso, la piccola impresa e il localismo, mi telefonò Acquaviva: "Craxi vuole che gli spieghi cosa hai scritto". Io vado da lui. "Senta un po´, ma lei ci crede davvero a tutta questa vitalità dell´economia italiana?". "Beh sì, io ci credo, che vuole che le dica?". Mi credette: sul localismo e sul sommerso costruì la sua onda lunga. Era un´Italia ricca di fermenti. Per noi che dovevamo raccontarla, una vera manna».
Quando si è rotta questa sintonia?
«Tra gli anni Ottanta e Novanta il made in Italy si è innamorato della finanza. L´immagine prevaleva sui contenuti: a me non piaceva. Si figuri che in trent´anni non ho mai messo piede in un talk show. Noi preparammo un rapporto sulla "società dello spettacolo". Mi ricordo che a un convegno di Mediaset Gianni De Michelis partì in tromba: "Dove sono questi imbecilli che dicono che siamo società dello spettacolo?". Lì ci fu la rottura con il craxismo. Buona parte delle imprese, che aveva scelto la finanza, cominciò a guardarci con sussiego. Ci consideravano non dico superati ma "scarpari di Fermo". Poi è accaduto un paradosso».
Quale?
«La fine della prima Repubblica avrebbe dovuto comportare anche la fine d´un certo modo di fare cultura: io ero considerato cattolico, democristiano - non lo sono mai stato ma, insomma, portato alla mediazione... Invece l´arrivo della Seconda Repubblica ci ha restituito spazio».
Nel senso che è cresciuta l´articolazione sociale?
«Nel senso che è aumentato il casino e c´era bisogno di noi. Il nostro nemico è solo un potere molto vigilante. Ma fin quando c´è disordine e vitalità, noi non abbiamo problemi. Viviamo di contratti: ne facciamo due a settimana. Non abbiamo nessun aiuto dallo Stato. Fatichiamo spaventosamente a cercarci i contratti, ma siamo liberi».
E l´Italia di oggi?
«Per dirla in romanesco, nun ce posso fa´ niente. La mia freddezza fenomenologica è altissima. Alcuni amici stranieri, attribuendomi un´autorità morale che non ho, si lamentano perché non mi indigno abbastanza. Non mi indigno per la semplice ragione che non serve a niente».
Però lei dieci anni fa, nel suo libro Il Regno inerme sul suicidio delle istituzioni, non rinunciava a farlo.
«Se uno si indigna sulla pubblica amministrazione può avere un senso, ma che senso ha indignarsi sui comportamenti del premier?».
E la società italiana?
«Resiste. Noi ci siamo trovati nella crisi del 2001 che sembrava una tragedia. E anche lì, con il naso che qualche volta ci contraddistingue, capimmo che gli italiani non la sentivano così drammatica. La nostra è una società solida, fondata sulla piccola impresa, sul sommerso, su famiglie strutturate, con un patrimonio immobiliare che è il più alto del mondo».
Ma c´è stato un momento in cui s´è sentito un po´ perso?
«Quando hanno ammazzato Bachelet, nel febbraio dell´80. Non me l´aspettavo. E io sono un po´ come un animale: sento tutto, ma allora non sentivo di essere in pericolo. La sera prima avevamo cenato insieme in via della Scrofa. La mattina dopo mi arriva la notizia. Sotto tiro erano i cattolici morotei, mi consigliarono un po´ di prudenza. Dopo molti anni, avrei ricevuto un faldone trovato in un covo delle Br: fotografie scattate sotto casa o mentre giocavo a tennis. Mi misi paura. Chiusi tutto nell´armadio e me ne andai a Prato».
In che cosa lei si sente italiano?
«In una dimensione popolana della vita locale, anche nel linguaggio. Da Bevagna a Fermo, ho vissuto l´Italia dal di dentro. Si può essere plebei, della plebe di Roma, ma mantenendo la capacità sanguigna di mescolare cose diverse. Un´energia italiana che amo molto. Forse riesco a dirlo con un verso di Belli: «Passò er tempo che noi trasteverini co´ la giacchetta in collo e er fuso in mano arrivamio anzimenta alli confini delle chiappe der monno e più lontano». È un modo "sprocedato" e sbruffone, un senso della vita più chimico che intellettuale, più comunitario che istituzionale, in cui io mi ritrovo molto».