Salman Rushdie, la Repubblica 9/5/2011, 9 maggio 2011
DA FELLINI ALLE MODELLE, LA DOLCE VITA DELLA PIGRIZIA
Me la immagino come una grottesca figura felliniana, pletorica e formosa, che quando ride tremola da capo a piedi. La cinepresa si abbassa su di lei che protende un seno immenso. Ha brutti denti e capelli neri e unti, raccolti in una crocchia. Se fosse una scultura, l´artista sarebbe senz´altro il colombiano Fernando Botero. Terrorizza i ragazzini adolescenti di… diciamo Rimini, o una città simile, ma insieme inesorabilmente li attira, con il profumo e il seno prorompente. È lei che li inizia ai misteri della carne e le sue sorelle sono Cabiria, Volpina e le altre. Spalanca le braccia verso di noi, e siamo perduti. Nata probabilmente nel XIII secolo, compare a stampa nel 1271, nella Summa Hostiensis, opera di un certo Enrico Bartolomei vescovo di Ostia, la città portuale in cui di notte, secoli dopo, la prostituta Cabiria avrebbe cercato clienti nel film di Fellini.
Superbia, Avarizia, Lussuria, Invidia, Gola, Ira, Accidia: ecco, secondo l´Ostiense, la sequenza che ne decifra il codice genetico. Superbia, Avaritia, Luxuria, Invidia, Gula, Ira, Accidia: l´acronimo rende Saligia vivida e palpabile.
Saligia. Tutti e sette i peccati capitali condensati in uno. Nel più grande e peggiore di tutti, cui va il diritto di chiudere lo spettacolo - all´ultimo posto, il posto di massimo disonore -, l´Accidia. Altrimenti detta Acedia o Pigritia, con le sue umili ombre, Tristitia e Anomia, un´erosione dell´anima. Fellini certamente è il maestro assoluto dell´accidia inerte. Il protagonista dei suoi film è quasi sempre, in un modo o nell´altro, un vitellone: un perdigiorno, a volte povero, a volte benestante, ma sempre uno sperperatore, la cui incarnazione suprema è il Mastroianni della Dolce vita e di 8?, alienato, malinconico, alla deriva, passivo, perduto.
Eccolo, il Marcello dagli occhi stanchi, bello e fragile, la sigaretta in mano e una donna al fianco, una donna che è in procinto di perdere. Ciondola lungo via Veneto, poi per sudici vicoli e poi ancora nel mondo della dolce vita, nelle case dei ricchi. Vaga tra feste mosce e decadenti, sopraffatto dall´inerzia, dall´incapacità di operare una scelta o di dare un impulso alla propria vita, come per una paralisi dello spirito. Una stella del cinema ubriaca, pneumaticamente desiderabile, sguazza accanto a lui nella Fontana di Trevi, e Marcello prova a riemergere dagli abissi della sua apatia per sedurla, ma fallisce, cavandone soltanto un (meritato) pugno in faccia dal fidanzato. Attorno a lui, in salotti e ristoranti, e nella città notturna battuta dal rapace fotografo Paparazzo, vagano gli abitanti del suo mondo senza emozioni, annoiate bellezze con espressioni vitree e perfette acconciature. Queste incarnazioni di Accidia non sono semplicemente dannate. Sono già all´inferno, a ballare con Saligia tra le fiamme (...).
L´ESITAZIONE DI ELSINORE
È l´accidia che paralizza Amleto: una disperata apatia, la depressione patologica che annichilisce la volontà e può essere indotta da un trauma esistenziale. Come scoprire che tuo zio ha ucciso tuo padre, e tua madre dopo lo ha sposato.
E se l´accidia fosse da intendersi come un peccato, allora forse ne seguirebbe che Amleto, il peccatore, ha meritato di morire. Ma non è questa la sensazione che Shakespeare desta in noi. Da scrittore non troppo devoto quale era, rifiuta la condanna religiosa dei suoi personaggi e, anzi, ci consegna una tragedia molto terrena.
ACCIDIA: I PRO E I CONTRO
La letteratura, in genere, non è stata gentile nei riguardi dell´accidia (...). In Montaigne e Conrad, così come in Dante e Catullo, l´accidia è invariabilmente condannabile. L´azione è il bene, l´accidia è il male. Questo è tutto. E arriviamo a De Quincey. Lui, l´inglese mangiatore d´oppio, del tutto a suo agio nella sfrontata indolenza in cui galleggia, che ci descrive il consumo d´oppio e le allucinazioni da esso provocate, dichiarandole «utili e istruttive». De Quincey si definisce con modestia «filosofo», nonché «creatura intellettuale», e non ammette nessuna colpa. Racconta i sogni causati dall´oppio, abbastanza belli e fantasmagorici da appagare anche il gusto più goticheggiante. Però poi quando parla del subcontinente indiano, mia terra natale, dice che è «crudele», che le sue culture gli fanno venire i «brividi», che «in quelle regioni l´uomo è una gramigna». E qui a parlare non è la droga, ma la persona. «Sono terrorizzato dai modi di vivere e di comportarsi e dalla barriera di totale avversione ed estraneità alzata fra noi da sentimenti troppo profondi perché io possa analizzarli. Vivrei meglio tra i pazzi o gli animali selvaggi» ci dice De Quincey – cioè, dice a me. Dopo questa confessione, i discorsi sulle sue allucinazioni mi sembrano stranamente poco interessanti malgrado tutte le scimmie, i pappagalli e le divinità che vi compaiono, per non parlare del coccodrillo famelico che lo perseguita, simbolo di tutto ciò che trova ripugnante in Oriente. Il problema non sta nell´oppio, ma in chi lo mangia. Come dice il vecchio marinaio Singleton nel Negro del Narciso, «le navi vanno bene. Ma non gli uomini che ci stanno sopra!». Ci sono peccati più gravi di quelli capitali. Il razzismo è il primo della lista.
OBLOMOVSCINA
Di certo l´argomento migliore, più forte, più divertente, più profondo a favore dell´accidia, senza il quale nessuna indagine sul tema sarebbe completa, può riassumersi in un´unica parola: Oblomov.
Oblomov, il più accidioso della pur indolentissima nobiltà terriera russa dell´Ottocento, e l´eroe - sì, l´eroe! - dell´omonimo romanzo di Goncarov, è l´esatto contrario dell´insonne Marcel di Proust. Se infatti, come è noto, per un lungo periodo Marcel andò a letto presto, poi però prima di riuscire a prendere sonno gli occorrevano un tempo spropositato e decine di pagine soporifere e di interminabili frasi. Oblomov invece sta a letto tutto il giorno, a volte sveglio, a volte sonnecchiando; gli occorrono centocinquanta pagine non per addormentarsi, bensì per alzarsi. E quando poi è costretto a farlo, non è avvolto dalle cadenze carezzevoli della prosa proustiana; non è contemplativo, ma arrabbiato, e il perché è abbastanza chiaro. È colpa di Zachàr, il suo servitore che ha fatto spazientire quel padrone orizzontale; la rabbia di Oblomov nei suoi confronti si esprime in frasi secche e dirette, in urla, e in un confuso abbozzo di castigo corporale. Ovviamente noi possiamo intendere l´accidia di Oblomov, la sua oblomovscina, la sua oblomovite, il suo oblomovismo, come il prodotto di un´infanzia viziata e molle, o una metafora della decadenza e del torpore della classe che rappresenta - e ci sarebbe del vero - ma un´esegesi così limitata non centra il punto: perché in ognuno di noi vive un piccolo Oblomov che implora di essere lasciato languire per il resto della vita, affrancato da preoccupazioni e responsabilità, libero di essere - sì! - un felice parassita. Oblomov sa che i suoi lontani possedimenti non stanno prosperando, che le loro risorse finanziarie meriterebbero più attenzione e che lui dovrebbe, letteralmente, viaggiare mille miglia per affrontare i problemi. E invece no! Come Bartleby, il suo predecessore americano, preferisce di no. Non solo: benché sia innamorato, e la fanciulla – Olga – sia deliziosa, e benché voglia davvero sposarla, rimanda la decisione finché non è lei a decidere rompendo il fidanzamento. Lui è l´Amleto procrastinatore, è Bartleby, ed è anche tutti noi. Guardiamo lo stato in cui versa il mondo e vorremmo poterci nascondere. Oblomov si nasconde per noi. Guardiamo l´altro sesso e ne veniamo sopraffatti. Oblomov si nasconde al nostro posto. Sappiamo di avere dei problemi e vorremmo che fossero lontani mille miglia. Oblomov li spedisce laggiù, si rifiuta di affrontarli: proprio come noi non possiamo fare, ma ci piacerebbe. L´oblomovismo giustifica e legittima la nostra accidia.
LINDA EVANGELISTA
Linda è una supermodella. No, Linda è la supermodella. Ecco le principali curiosità su di lei: è nota nell´industria della moda come il Camaleonte, ma non è un rettile; si diceva che fosse la fondatrice della Supermodel Union, ma una simile associazione non esiste; nel 1990 disse a un giornalista di «Vogue», Jonathan Van Meter: «Noi [supermodelle] non ci svegliamo neppure per meno di 10.000 dollari al giorno». Frase spesso riportata in modo errato: «Non mi alzo neanche dal letto per meno di 10.000 dollari al giorno»; in entrambe le versioni di questa frase si combinano tre dei sette vizi capitali – Superbia, Avarizia e Accidia – mentre una normale reazione a essa, e in verità alla stessa signora Evangelista, potrebbe combinare elementi di Lussuria, Invidia e Ira. Solo la Gola è assente. Niente male!
OBLOMOV E LINDA EVANGELISTA
Me li immagino in letti separati ma attigui, in una camera rococò, piena di luce e profumata di fiori. Oblomov, inquieto, cerca di non leggere i messaggi sulle sue difficoltà finanziarie che il maggiordomo gli porta. Linda finge di dormire, in attesa che squilli il telefono con un´offerta superiore ai 10.000 dollari per potersi alzare. Il telefono squilla. L´offerta è per Oblomov. 10.000 dollari se accetta di scendere dal letto. L´offerta è abbastanza alta per consentirgli di liquidare tutti i debiti e restare felice a pancia all´aria, senza un patema al mondo.
Lui declina. «Preferirei di no.»Rimangono a letto. Oblomov è soddisfatto e assonnato. Linda è infelice, agitata, incredula. Ma «il carattere è destino dell´uomo», come diceva Eraclito, ed entrambi sono in preda alla terribile sorte di essere loro stessi. Il giorno langue. «Eccoci sdraiati», dicono silenziosamente, quasi echeggiando Martin Lutero alla Dieta di Worms. «Non possiamo fare altro.» Non si muovono.Il maggiordomo Zachàr porta da mangiare su un vassoio d´argento ammaccato. Ma sia l´uno sia l´altra, per ragioni diverse, sono nella morsa dell´accidia, del peccato di accidia – Linda perché non ha ricevuto telefonate, Oblomov malgrado quella che ha ricevuto –, e non mangiano.
© Salman Rushdie, 2009.
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