Mario Pannunzio, Corriere della Sera 09/05/2011; Massimo Teodori, ib., 9 maggio 2011
2 articoli – GLI ALTRI INDIFFERENTI DI PANNUNZIO - La vanità, ecco ciò che mi rattrista nel contegno di tanti, ancor più dell’orgoglio, della superbia, dell’ambizione
2 articoli – GLI ALTRI INDIFFERENTI DI PANNUNZIO - La vanità, ecco ciò che mi rattrista nel contegno di tanti, ancor più dell’orgoglio, della superbia, dell’ambizione. La vanità, che si esprime astutamente, con parole piene di reticenza, con atti circospetti, con sorrisi che si schiudono all’improvviso. Dov’è che non la intravvedo, mal celata e insidiosa? Appare negli occhi semichiusi e languidi di Caterina, quando un amico mormora una frase che la punge ed esalta. E anche appare sulle labbra di Teresa, che quasi sembrano indurirsi e piegarsi verso gli angoli in una smorfia d’ironia (ch’è poi soltanto un modo di nascondere l’interno giubilo) se, prendendo la sua mano non bella, un amante accorto giura di non aver mai viste mani più esili e più bianche. E qui non parlo che della vanità di due donne, oh! Assai meno impudente e tanto più fiduciosa di quella degli uomini. Una vanità ch’è legata di solito a circostanze capricciose, e dà battaglia soltanto se qualcosa si leva contro per nuocere. Ma non è di questa sorta di vanità che intendo parlare. Ho dinnanzi alla mente la vanità di R. M... Si tratta di un giovane meticoloso, galante, amabile. È vanitoso perché si considera, o meglio vuole apparire, amico di personaggi potenti. Che lo sia davvero o no, ha poca importanza. Immagino che davvero goda i favori di S., visto che tanto spesso cita quel nome, a rinforzo dei propri ragionamenti, come a dire che un’opinione appoggiata da così alta autorità non può più essere messa in discussione. Lo splendore che emana da R. M… è dunque splendore riflesso, ma abbaglia egualmente gli animi innocenti. Il piacere provato dal giovane vanitoso nel raccontare la sua ultima gita con S. non deve avere eguali. «Eravamo in mezzo al bosco quando Arturo…» . Ho domandato una volta: «Chi è Arturo?» . R. M… mi guardò sbalordito. «Arturo? Ma è Arturo S., diamine!» mormorò speditamente. Però nel riprendere a parlare, gli avvenimenti dell’ultima gita avevano perso per lui una parte del loro incanto. Anche Maurizio è altrettanto vanitoso quanto R. M..., ma per motivi diversi. Benché non conosca che poco Maurizio, non esiterei ad affermare ch’egli vuole essere considerato niente altro se non un libertino. Che ci sia chi apprezza in lui le qualità dell’intelligenza e della condotta, non gli dà nessun piacere, né gli spenge la brama maggiore. Intanto, si veda come parla volentieri delle donne! «Una notte» , comincia a raccontare, «mi trovavo in una città del settentrione; nell’albergo avevo visto una donna. Pensai: ella è sola…» . S’interrompe, si guarda intorno, sorride. «Mi stancai presto di Norina» riprende «Dovevo partire. A T. sapevo che mi attendeva una vecchia amica. Una povera ragazza alla quale non ho fatto del bene davvero. Noi uomini siamo… L’avvertii in tempo. Venne con la sorellina, di quindici o sedici anni… Che pianti Raffaella quella volta ma io l’osservavo freddamente. Non provavo che stizza. La sorellina…» . Sergio Q. vive come un piccolo satrapo, illanguidito dai piccoli piaceri. Sa benissimo che l’esser goloso, per esempio, di frutta candita, o il possedere un gran numero di scarpini da ballo, e camicie di seta, è cosa di nessun conto e semmai ridicola. Se fosse povero, Sergio potrebbe vantarsi di queste predilezioni perché non alla portata dei poveri. Ma Sergio è ricco, in grado quindi di permettersi più grandi piaceri, e invece gode dei suoi gusti leziosi e stolti. Sta rinchiuso nel suo minuscolo guscio, e par che dica «Vedete, io uomo da nulla me ne sto qui contento, mentre potrei se volessi…» Eppure sa dove stanno di casa le grandi ambizioni, le complicate passioni che travolgono. Né si creda che non si renda conto quali infinite porte sono spalancate dinnanzi a un cuore ansioso. Ma Sergio, preso del tutto dalle sue gracili infatuazioni, allegramente conferma la propria nullità. E in quel suo parlare pudicamente appare la sua millanteria, la sua sfrenata vanità. «Io che sono modesto e insignificante godo di tante piccole cose, mentre voi urlate di frenesia e vi accapigliate per irraggiungibili traguardi» . Ecco quello che pensa Sergio Q. Una volta Sergio si lasciò prendere con estrema facilità dalle attrattive di una donna malefica. Io che avevo visto tremare come foglie sensibili altri uomini dinnanzi a lei, immaginai perduto il candido Sergio. Gli dissi anzi, a preservarlo, che quella donna era degna di un carrettiere, tutt’al più. Sergio mi rispose tranquillamente: «Che potrei pretendere di più? Non chiedo meglio che di starle ai piedi, infelice e dannato» . Quello che accadde poi mi riempì di stupore. Sergio portava alla donna regalini, sacchetti di cioccolata, spille e boccette di profumi. La irretiva con discorsi umili e appassionati. Da principio era chiaro che ebbe a soffrire per lei. Ma, come poi mi avvidi, quelle piccole pene, quei minuti affanni di continuo rinfacciati, addolcirono e invischiarono l’ispida arroganza della donna. Dopo di che, si vide Sergio Q. girare qua e là soddisfatto, e quasi iattante. Era uscito vincitore da una prova difficile, lui uomo senza qualità. Se io ancora gli manifestavo i miei dubbi, Sergio non si risentiva, ma anzi mi guardava lietamente, e scorgevo nei suoi occhi la vanità. La vanità di avere addomesticata una donna che io avevo qualificata pericolosa. Laddove altri più belli, più intelligenti si erano perduti miseramente, trafitti dalla passione e dall’insuccesso. Mario Pannunzio NOIA E INQUIETUDINE NELLO STESSO CLIMA DESCRITTO DA MORAVIA - Ho scoperto i manoscritti scompaginati del romanzo di Mario Pannunzio Occhio di marmo nel Fondo depositato all’Archivio storico della Camera dei deputati, in mezzo alle carte che stavo consultando per preparare la biografia pubblicata nel 2010 da Mondadori: Pannunzio. Dal «Mondo» al Partito radicale, vita di un intellettuale del Novecento. Mi sono subito reso conto di avere fatto una scoperta straordinaria, se non altro sul piano storico-culturale, perché quell’opera giovanile, nota agli amici dell’epoca, Nicola Chiaromonte e Alberto Moravia, era stata da sempre data per scomparsa e non era classificata nel Fondo come romanzo. Del resto, anche per l’opinione pubblica più acculturata, la memoria di Pannunzio restava legata all’attività giornalistica e politica di prestigioso direttore di «Risorgimento liberale» (quotidiano, 1944-47) e del «Mondo (settimanale, 1949-66), oltre che di leader liberale e radicale sostenitore della terza forza laica. Era stata invece lasciata del tutto in ombra la vita del giovane intellettuale, che tra i venti e i trent’anni si era cimentato con intelligenza e passione in svariate attività: pittore (presente alla prima Quadriennale di Roma nel 1932), scrittore, regista cinematografico, giornalista dalle molteplici competenze, critico letterario e artistico. Il ritrovamento del romanzo, datato all’incirca dalla metà degli anni Trenta, acquistava così un significato non solo come testimonianza diretta del clima ambiguo e sciroccoso della Roma che aveva ispirato Gli indifferenti di Moravia, ma anche quale contributo all’autobiografia di un precoce anticonformista alla ricerca di un’identità morale fuori dalla routine familiare e sociale. Ma nel romanzo si può leggere anche qualcos’altro, che riguarda il culmine del fascismo: l’ansia della generazione cresciuta negli anni Venti e Trenta, e definita «afascista» , che rifiutò il coinvolgimento nel regime mussoliniano, pur non facendo parte della minoranza antifascista militante. Solo durante la guerra, il giovane umanista, nutrito di cultura liberaldemocratica e di particolare affetto per Croce e Tocqueville, attraversò la frontiera che lo separava dall’antifascismo, finendo tra l’ottobre 1943 e il febbraio 1944 incarcerato a Regina Coeli, da dove uscì pochi giorni prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Il romanzo, composto da 17 capitoli, alcuni dei quali trovati in più versioni manoscritte oltre che nel dattiloscritto finale, è stato ricomposto e ordinato secondo il filo autobiografico che va dal primo capitolo, che narra l’infanzia nella villa di famiglia a Vallebuia in Lucchesia, all’approdo a Roma nel periodo di espansione del nuovissimo quartiere Prati, fino alla parte conclusiva in cui due persone (probabilmente Moravia, oltre a Mario) interrompono le consuetudini amicali della vita romana in seguito all’incontro di una donna che diviene la moglie di uno di loro (Pannunzio sposa nel 1935 un’attrice ungherese). Massimo Teodori