La Stampa 9/5/2011, 9 maggio 2011
LETTERE
Torino, 29 aprile 2011. Teatro Regio. È di scena il Rigoletto. Il teatro è gremito, nella folla anch’io, nemmeno ventiduenne, assieme alla mia amica d’un anno più vecchia. Completamente coinvolta da ciò che accade sul palco, non noto quasi nulla di quello che mi capita intorno. Pochi elementi attirano la mia attenzione, sono quelli molto evidenti. Il primo, è un pubblico vagamente ignorante su quando sia opportuno non applaudire, e questo mi riempie di gioia. Significa che si stanno avvicinando al mondo dell’opera nuove persone, che ancora non sanno, che non hanno studiato, che riscoprono i teatri della città come fonte di divertimento. Sono soddisfatta.
Il secondo elemento, invece, mi demoralizza. È la luce dei cellulari che lampeggia a ogni minima pausa. È una luce che non va a illuminare volti di giovani trascinati lì contro la loro volontà, individui annoiati che sbirciano l’ora sperando in un improvviso balzo in avanti del tempo. No. Sono uomini sui 40 o 50 anni. Giacca e cravatta, moglie in lungo al seguito.
Uno di questi signori è seduto proprio davanti a me. Sbircio, non per curiosità ma perché tanto mi sta rovinando la visione, impossibile evitare quel faro che viene sprigionato dal suo «i-Non so cosa» ultimo modello. Sta controllando il suo profilo su Facebook. Un uomo di quarantacinque anni circa, al Teatro Regio, mentre Rigoletto prende fiato, controlla il suo profilo su Facebook.
Ricomincia la musica e l’uomo deve ancora uscire dall’applicazione. Il canto è già ripreso quando riesce finalmente a mettere via la sua arma tecnologica. Mi guardo, guardo la mia amica. Tutte e due abbiamo dato una sola occhiata al cellulare, durante l’intervallo di mezz’ora. Per il resto, come non averlo. Idem per gli altri due ventenni o poco più seduti vicino a noi. Mi verrebbe da pormi qualche domanda. Ma non subito, più tardi. Gilda sta ancora cantando il suo amore disperato. Silenzio.
Silvia Bruno