Paolo Sorrentino, GQ maggio 2011, 9 maggio 2011
GQ, maggio 2011 Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo non hanno figli, ma possiedono ventotto cani. Essi si chiamano: Energie, Cippettina, Cassia, Chicchirichì, Nano, Energina, Lisa, Spugna, Jack, Ercole, Betty, Zizi, Pupetta, Nera, Negrita, Giulietta, Irma, George, Marilyn, Capucchiello, Shakira, ET, Zorro, Chihuaua, Pallina, Piccirillo, Ugo e Lady
GQ, maggio 2011 Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo non hanno figli, ma possiedono ventotto cani. Essi si chiamano: Energie, Cippettina, Cassia, Chicchirichì, Nano, Energina, Lisa, Spugna, Jack, Ercole, Betty, Zizi, Pupetta, Nera, Negrita, Giulietta, Irma, George, Marilyn, Capucchiello, Shakira, ET, Zorro, Chihuaua, Pallina, Piccirillo, Ugo e Lady. Avevano anche due alani, Lothar e Ali Babà, ma adesso sono morti. Energie è il preferito. Ha tutti i diritti del mondo e la massima priorità su chiunque. È di colore marrone. Enzo Paolo lo ha trovato in mezzo alla spazzatura di Secondigliano. Di Energie, dice trionfante: «Energie in Spagna è stato su Internet, è diventato famosissimo, lo volevano nei programmi, lui ha una personalità... lui ha una personalità...». E la parola “personalità” acquisisce, di colpo, la dimensione del mistero, dell’esoterico. Dunque, si può intuire, ma non scoprire, di preciso, che tipo di personalità possieda Energie. In passato, qualcuno ha proposto a Carmen ed Enzo Paolo di diventare protagonisti di un fumetto con loro due e tutta la muta di cani. La cosa non andò in porto. In futuro, invece, probabilmente Enzo Paolo sarà il protagonista di un reality con centinaia di cani e lui, unica presenza umana, comparirà in qualità di maggiordomo delle bestie. In questo senso, le trattative sono piuttosto avanzate. Ma l’idea più ambiziosa, che mi raccontano con occhi limpidi e un pizzico di reticenza, come se la si potesse rubare, è quella che hanno proposto, senza successo, a vari produttori televisivi: una loro biografia, dal punto di vista dei cani. Dove, a parlare, sarebbero le dolci bestiole e non Carmen ed Enzo Paolo. Il racconto dell’idea al sottoscritto è preceduto da un breve preambolo, in cui mi dicono, con vago senso di complicità: «Tu una cosa così la puoi capire». Bene, ora dedichiamoci alla chiarezza, Pagodina vostro può capire molte cose, ma mica proprio tutto. Ma il punto centrale di domanda è un altro: vale veramente la pena di capire alcune cose? È davvero tutto rilevante? Non si ha sovente il sospetto di muoversi in un oceano d’irrilevanza e l’isoletta deserta, approdo di senso, sempre più lontana? Le onde dell’irrilevanza non si stanno facendo sempre più alte da impedire la visuale? Con spregiudicata autoironia, Enzo Paolo e Carmen chiudono il capitolo quadrupedi affermando che loro stessi, in realtà, somigliano a dei cani. È proprio vero che quando la verità si fa implacabile l’uomo si mette a forgiare, con cura e professionalità, tutti gli strumenti della sopravvivenza. E ci riesce. Io non li conoscevo Enzo Paolo e Carmen. È il solito Tonino Paziente che, d’imperio, mi ci ha portato a pranzo a casa loro. «Li devi conoscere», ha detto. «Sono brave persone». È vero, sono brave persone. Schiette e straripanti come la mozzarella che Enzo Paolo ha disposto con cura a tavola. La loro ospitalità è bella e commovente. Dopo il capitolo quadrupedi, davanti a dei peperoni, prende il sopravvento, come una voragine, un paragrafo che ho sentito già troppe volte nella mia vita. Noi artisti è il titolo. «Si è svegliata la vecchia», dice Enzo Paolo, alludendo a uno dei ventotto cani che sbadiglia. Una robina piccola e pelosa d’inedita bruttezza. Ci diamo dentro con gli antipasti, e Carmen: «Mi hanno offerto a teatro La locandiera, è interessante, contiene un messaggio psicologico. Enzo Paolo è un artista anche in cucina, perché ha il senso della misura. Io non ce l’ho il senso della misura, ma sono artista anche io». Enzo Paolo: «Noi siamo artisti. La normalità normale è banale. Io sono stato primo ballerino a Napoli, Rio de Janeiro, San Paolo, Bologna e grande amico di Nureyev. Io sono diventato tra i maestri di danza più famosi del mondo perché a me piace più vedere chi balla che ballare. Ti piacciono i peperoni?». Dice tutto questo senza presunzione, come un dato di fatto. Tonino, al mio fianco, a causa del soprappeso, rantola, come se russasse, e tutti gli buttiamo degli sguardi, perché crediamo che dorma e invece è vigile come un rappresentante di cosmetici al momento di mostrare il catalogo. Però, il suo rantolo da sveglio distrae me, Enzo Paolo e Carmen. Frammenta, involontariamente, la conversazione sul tema Noi artisti. Enzo Paolo mangia con un cane in braccio e gli passa, in una respirazione bocca a bocca, un biscotto. La cosa mi fa un poco senso. Carmen è imbottigliata in una scollatura che neanche Fellini avrebbe potuto immaginare. Il petto sfiora il piatto coi peperoni. Sui piatti di Vietri è scritto, con caratteri melliflui, «Carmen». In realtà, «Carmen» è scritto dappertutto. Un’orgia a sei lettere. La casa, d’altronde, si chiama Villa Carmen e ovunque ci sono foto di lei e di lui e copertine di vecchi Blitz ed Eva Express e ricordi e fotomontaggi e c’è sempre scritto dappertutto CARMEN. Tutto questo mi dà un leggero capogiro. Tonino Paziente russa da sveglio. «Siamo artisti», dice Carmen, «e gli artisti non devono provare gratitudine per chi gli da lavoro». Un concetto che mi sfugge. «Ti piacciono i peperoni?», insiste Enzo Paolo. Annuisco in fin di vita e penso che vorrei saperne di più su quella storia della gratitudine, ma Enzo Paolo mi anticipa e mi stordisce con una frase clamorosa: «Anche Berlusconi è un artista». E io che mi ero illuso che facesse il presidente del Consiglio. Siamo tutti artisti, una bella combriccola. Tra le tonnellate di foto esposte, ne scorgo una che ritrae l’artista Carmen e l’artista Berlusconi. Lei mi sembra avere un’espressione molto grata, ma non lo dico perché mi ha appena detto che un artista non deve provare gratitudine. Tonino rantola un po’ di più, questa volta siamo sicuri che stia dormendo o che sia morto. Ci voltiamo a guardarlo tutti e tre all’unisono e invece sta fissando con occhi opachi un cane di bronzo di un metro per due che arreda l’angolo coi divani e una tv al plasma grande come una barca. Stremato dai peperoni, dalla mozzarella e dallo champagne, guadagno come un moribondo il divano. Cerco il silenzio. Lo trovo. Ma dura due secondi, perché undici chihuaua, nessuna differenza coi topi, mi puntano e avanzano a falcate verso di me con lo stesso impeto delle truppe in Normandia quando si aprivano i portelloni delle imbarcazioni. Galleggio nel terrore. Tutti gli animali al di sotto dei quaranta centimetri mi aizzano un panico furibondo. Urlo. Carmen corre in mia difesa. Mi libera dalle bestie a colpi di décolleté. Provo per lei un’immensa gratitudine e per questa ragione realizzo che non sono e mai sarò un artista. Tonino ed Enzo Paolo si danno da fare per rinchiudere i microcani in un recinto ad hoc. Io chiacchiero sul divano con Carmen. Lei, senza dare importanza alla cosa, mi rivela: «Feci una cosa coi Jefferson. Te lo ricordi il telefilm dei Jefferson, no? Lo sai che i due che facevano marito e moglie si odiavano? Proprio non si rivolgevano mai la parola». Chissà perché, questa notizia mi ferisce. Mi demolisce il concetto d’idillio che, nella mia mente bacata, corrispondeva alla relazione tra i coniugi dei Jefferson. Poi, dal momento che non siamo più dei giovanottielli, viriamo sulla nostalgia della televisione che fu. Lei mi fa: «Anni fa, per andare in televisione, bisognava saper fare bene qualcosa. Per questo imparai a ballare, e poi non volevo che mi vedessero solo come una bonona. Oggi non è più così. Oggi anche chi non sa fare nulla va in televisione e questo è sbagliato». Dice cose giuste, dunque le chiedo: «E allora perché sei andata a fare L’isola dei famosi? Lì non bisogna ballare, non bisogna saper fare niente. Devi solo mangiare, dormire e sparare puttanate». A questo punto Carmen mi guarda e mi dice quasi allibita, come se fossi l’unico al mondo a non saperlo: «Sono andata perché bisogna esserci, bisogna farsi vedere. La visibilità è importante». Adesso silenzio. Ma perché? Mi domando. Ma chi l’ha detto che il veicolo per soddisfare la propria vanità e il proprio portafogli consista nel farsi vedere in televisione? C’è il sospetto fondato che questo tipo di vanità sia così obsoleto. Di seconda fascia. Io provo il massimo rispetto per chi vuole arricchirsi e per chi esercita a ritmo costante l’amore di sé. Ma è proprio per questa ragione che bisognerebbe starsene altrove. I veri vanitosi ricchi predispongono le cose affinché si parli costantemente di loro senza che essi siano visibili. L’invisibilità alimenta il sospetto. Il sospetto fa dilagare la chiacchiera e la chiacchiera nutre l’ego. Ma bisogna avere pazienza per raggiungere quest’obiettivo. Una pazienza da monaci e una lavorazione da mosaicisti. Un esercizio raffinato e oscuro del potere, mai scisso dall’istintivo concetto della potenza. Perché quando ti butti in vetrina finisci sempre a gennaio col cartello dei saldi bene in vista. E con i saldi è sempre la stessa storia. Finisci per pensare che era roba che valeva poco anche quando la vendevano a prezzo pieno. Una truffa, insomma. Come la televisione. Mentre ci liberavamo dei cani, Carmen mi ha detto che per lei la volgarità è tutto ciò che è fuori luogo. Ecco, stavo appunto per dirle che la televisione è fuori luogo, ma mi sono fermato un attimo prima. Perché ci hanno trascorso la vita, dentro alla televisione, lei e il marito. È un amore cieco. «All’amor non si comanda», diceva mia madre e un altro miliardo di persone. Anche se Carmen ed Enzo non riescono più a trovare con facilità le maniglie delle porte degli studi. Le hanno chiuse da dentro e ci hanno fatto entrare solo una massa di nullafacenti vestiti malissimo. «Mentre io, Gesù, io ero una vedette», chiosa Carmen senza rimpianti e senza livore, ancora idealmente inguainata dentro una costellazione di paillettes. Non lo so se è vero. Però “vedette” è una bella parola, che si è perduta anni fa, dentro le buste della spazzatura di scintillanti studi televisivi. Però la nostalgia non è vero che è un sentimento infrequentabile. Alle volte, è l’unico toccasana. È una spalliera, la nostalgia, che dovrebbe ricordarci l’inevitabile ritmo delle cose. E invece, tutte le volte che si ha voglia di accantonarla, la nostalgia, si finisce per confondere la vecchiaia con la gioventù. Le si mette nello stesso vassoio e, se il conto corrente lo permette, comincia un vortice discutibile. Si parte con la tinturina nei capelli e si approda al rifacimento delle piante dei piedi per via chirurgica perché si sono fatte tutte rugose. Ma tra capelli e piante dei piedi si finisce per dare un’occhiata pure a tutto il resto. «Mi sono fatta qualche cosina qua e là perché ero armonica e devo rimanere armonica. Devo conservare la mia autenticità», sibila Carmen a proposito di ritocchini e bisturini, e, non paga, aggiunge: «E poi per rispetto del pubblico per come mi ha sempre vista». Ma il pubblico non glielo ha mai chiesto veramente, è una sua supposizione. Non può essere altrimenti, perché il pubblico non chiede mai niente. Il pubblico, cioè la gente, ci ha un sacco di cazzi propri a cui pensare e non ha proprio il tempo di mettersi a chiedere a quelli che vanno in televisione cosa devono fare. Questa è una pia illusione di quelli che stanno dall’altra parte. «Il mio pubblico», dicono. Ma “il mio pubblico” ci ha i figli tossici e le infezioni alla pelle con la dermatologia che non ci capisce niente e quando accende la televisione è pronta a commettere il tradimento in qualsiasi istante nella maggior parte dei casi giusto per noia o per un poco di novità a buon mercato. Il pubblico è una troia incosciente, lasciatelo dire a me che sono stato un vecchio cantante di successo e d’insuccesso. Appena “gli artisti” si mettono a dire: «Il mio pubblico», ecco che quello se ne è già andato altrove con una spensieratezza da bambini ricchi. Allora “gli artisti” ci rimangono male e dicono: «Ma come?». E poi cominciano a inseguire questo fantomatico pubblico, lo cercano nelle case e nelle salumerie e fanno un gran numero di casini. Perché non sono mica detective, gli artisti. E dunque gli mancano gli strumenti del mestiere. Poi abbiamo passeggiato tutti in giardino e il sole già non era più così alto. Stava venendo giù tirandosi appresso, al guinzaglio, un barlume di malinconia. Accade tutti i pomeriggi, qui a Formello. Carmen, i piedi nell’acqua, pensava senza rammarico al figlio che non ha avuto e che non dispera di avere. C’è dolore pure a bordo piscina, mentre Enzo Paolo mi dice che lui è una brava persona, che non vuole mai male a nessuno e che lui gioisce quando a un altro capita una cosa bella. E io ci credo. Sotto al ciuffo biondo da barboncino si annida la verità. E mi ha rivelato un altro desiderio vivo: fare un film, un musical. Carmen dice che solo lui lo può fare bene. Lo ama, come il primo giorno in cui l’ha visto ballare da dio. Enzo mi srotola il contenuto del musical. Ha intezioni serie. Vuole ammonire i ragazzi a Napoli che buttano le carte a terra, e in questo senso prevede l’apparizione di Tullio De Piscopo che gli tira le orecchie e poi si mette a suonare sui cassonetti come se fossero tamburi e giù un primo balletto. Vuole che Carmen interpreti la panettiera, deve cuocere i cornetti nella scollatura e la gioventù si delizia di questi cornetti caldi, sessuali, e qui il “messaggio” è tutto rivolto contro l’anoressia. Questo è il secondo balletto. C’è un’altra idea, ancora un po’ vaga, in cui l’ammonimento è contro la droga. Dice che i giovani possono tirarsi fuori dalle dipendenze se hanno qualcosa di meglio da fare, una passione. Lui in passato ha ottenuto molti risultati proprio insegnando il ballo, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Muccioli della danza”. Ha in mente anche un altro balletto con messaggio annesso, ma in questo momento non se lo ricorda. Ci lasciamo così, su questa empasse. Io e Tonino ci buttiamo in macchina e guadagniamo il raccordo anulare per tornare a Roma. Si procede a passo d’uomo. Sta tramontando. Io guido. Tonino, affianco a me, rantola da sveglio, mentre si rivede delle foto un po’ sexy che ha fatto a Carmen durante la giornata. Io penso che adesso mi butto dalla macchina. Giusto per fare una cosa come la fa Carmen Russo. Invece non lo faccio. Trascorriamo una mezz’oretta in silenzio, mentre avanziamo faticosamente lungo il raccordo anulare. Di colpo, Tonino dice con il tono neutro di un bancario: «Prima, quando tu stavi dentro a chiacchierare con Carmen, Enzo Paolo ha pestato una cacca di cane in giardino». Non so perché me l’ha raccontata questa cosa. Però, come due bambini scemi, in una progressione ben scandita, cominciamo a ridere come ossessi. Proprio abbiamo le convulsioni. Tonino ride e rantola con fatica disumana. Abbiamo le lacrime agli occhi per le risa. Lentamente, cala di nuovo un silenzio abissale. Interrotto solo dal rantolo di Tonino che ha fatto da sottofondo a tutta la giornata. Mi volto a guardarlo ancora. Ma questa volta sta dormendo. È stata una bella giornata. Grazie Carmen, grazie Enzo Paolo. [...] Tony Pagoda (Paolo Sorrentino)