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 2011  maggio 08 Domenica calendario

VENEZIA

Ha un modo di parlare suadente. Ha occhi limpidi e un sorriso smagliante Jeff Koons mentre si racconta di fronte al Canal Grande, a Venezia. È fra gli artisti più controversi e dibattuti, senz´altro fra i più radicali, l´uomo che ha catapultato gli oggetti quotidiani, anche i più banali, nell´arte contemporanea. Certo, prima di lui l´avevano già fatto Duchamp, e poi Picasso, e poi Andy Warhol, ma lui l´ha fatto nell´epoca della comunicazione globale, e l´impatto è stato deflagrante. «Ho scelto di lavorare con oggetti e icone quotidiane perché vorrei dire alla gente che la loro storia è perfetta così com´è, che le cose di tutti i giorni, quelle che fanno parte del loro passato e del loro presente, persino le più stereotipate e le più banali, sono importanti», spiega candidamente l´artista americano, classe 1955, che ha raggiunto le quotazioni più alte con i 23,6 milioni di dollari pagati da Sotheby´s a New York per Hanging Heart, o i 25,7 per Balloon Flower (Magenta) da Christie´s a Londra. «Sono tutte cose riconoscibili, accattivanti, divertenti, in un certo senso spensierate, e io le scelgo per quello che sono, niente di più. È un modo per entrare in relazione con se stessi attraverso l´accettazione della propria storia, del proprio mondo».
È così Jeff Koons, spiazzante come le sue opere: lucide, nette, senza esitazioni procedono per concetti essenziali e immagini immediate. Come i palloni da basket fluttuanti in acqua distillata (Equilibrium), gli aspirapolvere patinati nelle vetrine di plexiglass (The New), il cuore rosso, d´acciaio scintillante, della serie Celebrities ora sospeso a Punta della Dogana nell´ultima mostra della collezione di François Pinault (Hanging Heart). Ma poi si arriva al punto. «Da qui, dal momento in cui hai riconosciuto la tua identità, puoi muoverti nella direzione che più ti piace. L´arte è un veicolo straordinario, ti porta lontano, nel mondo, verso orizzonti molto più ampi di quelli che conoscevi. È un mezzo per rimuovere giudizi e preconcetti. A quel punto ogni cosa rientra in gioco, l´universo diventa più affascinante. È come se tutto fosse a portata di mano, basta sapere riconoscere la direzione».
Lui l´ha riconosciuta subito quando, da un giorno all´altro, decide di trasferirsi a New York. Era il 1977. «Ero stufo di Chicago, un pomeriggio ho sentito Patty Smith alla radio che raccontava di questa straordinaria comunità artistica di New York. Il giorno dopo ho fatto le valigie e da allora non mi sono più mosso. Per prima cosa ho smesso di dipingere e ho iniziato a lavorare con gli oggetti, volevo acquistarli e esporli come qualcosa che parlasse di noi, della nostra società, del contemporaneo. Cercavo un modo per installarli. In quel momento amavo molto Robert Smithson e Donal Judd». Elegante nel suo abito blu dal taglio impeccabile, Koons mentre parla affabula, ogni volta che inizia a raccontare di un´opera è come se raccontasse una storia venuta da lontano. Poi entra nei dettagli, articola la voce, sottolinea alcuni passaggi. Di tanto in tanto beve un sorso d´acqua, gasata. È venuto a Venezia con sua moglie Justine, anche lei artista, da cui ha avuto cinque figli. Ne aveva già altri due, una di trentasette anni e Ludwig, di diciotto. «La più piccola, Scarlett, ha nove mesi. Li adoro, i miei figli. Quando sono a New York resto in studio dalla mattina fino alle cinque, poi passo il mio tempo con loro. Anche nei weekend, anche in viaggio: condividere esperienze con loro è fantastico».
Ricorda che per mantenersi a New York lavorava al Moma, vendeva membership card. E intanto osservava. Osservava le opere, le vetrine, le persone, le dinamiche della percezione. Presto proprio la sua empatia per le persone lo porta a diventare un broker di successo. «È un lavoro che ho fatto per cinque anni, volevo guadagnare soldi per produrre le mie opere. Ho sempre saputo che ero un artista e non ho mai dubitato di volerlo fare. Fin da bambino amavo disegnare. Era la cosa che mi riusciva meglio. Mia sorella, di tre anni più grande, leggeva più di me, correva meglio di me, in tutto era più brava di me. Ma io, nel disegno, potevo batterla. E i nostri genitori mi hanno sempre incoraggiato a farlo».
Lavora moltissimo. Di giorno e di notte. Duchamp è il suo idolo, Warhol il suo punto di riferimento più vicino, Picasso un´ispirazione folgorante, Dalì con i suoi oggetti e i suoi animali surreali è imprescindibile. «Ho sempre pensato che Andy fosse il figlio di Marcel Duchamp, e che uno come me potesse esserne il nipote. Ma anche Picasso è stato davvero importante, perché ha lavorato con gli oggetti e li ha inseriti nei collage e nelle sculture. E poi amo Dalì, il Surrealismo, perché ha portato l´attenzione sull´inconscio».
A metà degli anni Ottanta arriva l´intuizione: mettere in vetrina oggetti nuovi e scintillanti. Fra tutti sceglie l´aspirapolvere, patinato, immacolato, emblema del consumismo e della middle class. «Per me era un ritratto della società, così come persone e famiglie sono stati ritratti in altre epoche nella storia dell´arte. E poi queste macchine che respirano sono antropomorfe, risucchiano e buttano fuori aria, sono oggetti quotidiani e metafisici al tempo stesso. L´aspirapolvere rappresentava l´oggetto perfetto». E anche la svolta perfetta. Tutti cominciano a guardare con interesse al lavoro di Koons. Inizia una carriera folgorante che ne ha fatto un mito, una leggenda, e che l´ha portato a esporre, dopo gli esordi con Ileana Sonnabend, in gallerie come Gagosian, ad avere sue opere nei più importanti musei internazionali, dal Moma alla Tate, e nelle più grandi collezioni private al mondo come quella di François Pinault, Eli Broad, Dakis Johannou, l´armatore greco per cui ha disegnato una barca battezzata Guilty.
Nelle sue opere c´è sia la fascinazione che il lato oscuro dello sgargiante immaginario pop. «Nel mio lavoro ci sono diversi aspetti, luci e ombre, il punto è sempre la ricerca dell´equilibrio. Le mie prime installazioni erano su questo. I palloni da basket che galleggiano in acqua distillata riguardano spinte e contro-spinte, forze contrapposte che cercano un equilibrio. È di questo che parla Sartre, fra gli autori che amo di più: della nostra esistenza, della vita e della morte». È di questo che parla anche l´arte di Koons, lo raccontano le serie psichedeliche come Banality, Celebration, Popeye, le installazioni come il Puppy, la saga Made in Heaven,il suo più radicale ready-made in cui ha incluso se stesso e la pornostar Ilona Staller (poi diventata sua moglie). «Con la serie Banality ho dato forma a quell´immaginario collettivo di banalità e stereotipi che appartiene a tutti ma di cui tutti si vergognano. Non è facile accettarlo, in effetti, ma come ho detto è dall´accettazione di sé che inizia l´emancipazione individuale».
Di qui le stucchevoli sculture di orsetti, nanetti e angioletti in legno e porcellana, che culminano con l´apoteosi del kitsch: Michael Jackson a grandezza naturale con tanto di scimmietta Bubble in porcellana bianca e oro. Ma non è ancora abbastanza. Con Made in Haeven, la serie di fotografie e sculture che lo ritraggono in pose erotiche con Ilona Staller, fa finalmente scandalo. Scendono in piazza associazioni religiose, montano le polemiche su giornali e tv. «Quel lavoro nacque quando il Whitney Museum mi chiese di realizzare un manifesto da affiggere a New York per una mostra dedicata ai media e alla comunicazione. L´ho immaginato come fosse la locandina di un film, e così l´ho fatto. Avevo appena visto l´affresco de La cacciata dal paradiso terrestre di Masaccio, a Firenze, e lì ho capito che volevo si parlasse di qualcosa di cui non si parla mai. Senza alcun giudizio, vergogna o sensi di colpa. Era, appunto, un lavoro sull´accettazione di sé». È uno shock: una star dell´arte contemporanea, una pornostar, un museo blasonato. Quel trittico fa il giro del mondo e, nel frattempo, i due si sposano: «Questo non era previsto, ma la vita è sempre più forte dell´immaginazione».
Il matrimonio dura qualche anno e finisce travolto da vicende burrascose. Intanto Koons lavora a Celebrities, in cui realizza in acciaio specchiante oggetti quotidiani che celebrano momenti speciali: stagioni o ricorrenze. «Ho trovato piccoli oggetti e li ho fotografati su sfondi di carta stagnola colorata, così che fossero riflessi. Quando ho guardato le foto ho pensato "sono troppo belli". Avevo un repertorio di immagini reali, autentiche, che si riferivano alla vita della gente. Celebrare le ricorrenze significava fermare gli attimi, scandire il tempo. Era un lavoro fantastico. Ed era lì, davanti a me». Oggi sulla punta estrema della Dogana, il cuore rosso in lucido acciaio, il più famoso della serie, riflette il tempo, la storia, la quotidianità. «Il cuore era un piccolo oggetto che ho trovato in una farmacia di New York», spiega, «era appeso così come è la scultura, con un nastro d´oro. L´ho comprato. E poi l´ho realizzato enorme, in un materiale che sfida la caducità del tempo, che evoca l´eternità. È lucido, perché rifletta tutto ciò che gli sta intorno, perché includa anche le persone e le loro esistenze. Chi è nella stanza è anche nell´opera».
È una scultura solenne che parla di massimi sistemi con un linguaggio quotidiano, e forse è proprio questo che affascina di Koons. Lui ci ha puntato ed è il primo a lasciarsi affascinare dall´arte e dal quotidiano. Una storia che viene da lontano, da quando, ragazzino, passava ore nel laboratorio di suo padre, decoratore d´interni, fra specchi e oggetti.