Natalia Aspesi, la Repubblica 8/5/2011, 8 maggio 2011
Arrivavano col vagone letto, carichi di enormi valigie, come viaggiatori qualsiasi, e ad aspettarli c´era soltanto qualche svagato fotografo come i Traverso che solitamente a Cannes riprendevano matrimoni e comunioni: Jeanne Moreau e Michèle Morgan, Vittorio De Sica e Simone Signoret, Gina Lollobrigida e Brigitte Bardot, che allora, era il 1956, ancora non se la filava nessuno
Arrivavano col vagone letto, carichi di enormi valigie, come viaggiatori qualsiasi, e ad aspettarli c´era soltanto qualche svagato fotografo come i Traverso che solitamente a Cannes riprendevano matrimoni e comunioni: Jeanne Moreau e Michèle Morgan, Vittorio De Sica e Simone Signoret, Gina Lollobrigida e Brigitte Bardot, che allora, era il 1956, ancora non se la filava nessuno. Il Festival di Cannes dava più importanza ai film o addirittura agli intellettuali come Cocteau che ai divi, e i divi quindi erano liberi di spassarsela, circondati da una discreta, rispettosa ammirazione: Henry Fonda passeggiava sulla Croisette e si lasciava fotografare dai passanti, Elizabeth Taylor accettava di posare davanti a una gelateria in mezzo a due marinai, Sophia Loren, al Festival per accompagnare il marito Carlo Ponti che nel 1959 faceva parte della giuria, fumava seduta in un caffè tutta sola, Eddie Constantine giocava a ping pong sulla spiaggia. L´idea delle guardie del corpo che oggi infestano la vita dei vip non esisteva, e i vip erano liberi come tutti. Per parecchi anni il mondo del cinema considerò Cannes, oltre che un essenziale mercato, un luogo per spassarsela, non la prigione che è oggi: i suoi protagonisti si fermavano per giorni, prendevano il sole, facevano shopping, organizzavano privatissimi ricevimenti in ville irraggiungibili in cui la stampa non metteva piede, non disprezzavano le avventure: amavano, cornificavano, vivevano. Come arrivino oggi a Cannes i divi è un mistero: forse in aereo privato, forse in elicottero, forse in megayacht, forse in sommergibile, non si riesce mai a coglierli in quel momento fatale, e sì che da una decina che erano i fotografi negli anni ´50, oggi assieme ai videoperatori sono migliaia, con tutti i loro cartellini segnaletici al collo, però intruppati, ingabbiati, immobilizzati come in una festosa Guantanamo, in modo che non possano mai uscire dai recinti loro assegnati e avvicinarsi alle loro celebri prede. O forse le star semplicemente si materializzano dal nulla, quando escono da limousine dai vetri oscurati, direttamente ai piedi della impervia scalinata del Palais, nel grande vuoto che tiene la moltitudine plaudente molto lontana, per poi salire sul tappeto rosso solennemente, coi loro strascichi e i loro tacchi dementi e i loro smoking, dare la mano al grande Gilles Jacob, direttore per decenni e oggi presidente del Festival e a Thierry Fremaux, l´attuale geniale direttore, farsi applaudire in sala e poi forse volatilizzarsi chissà dove, come se non fossero mai stati lì. Non più persone, non più attori e registi, non più star o vip, semplicemente celebrity, immagini pubblicitarie di se stessi, del film presentato, e soprattutto di chi finanzia quel momento di muta esibizione, la tintura di capelli, i prodotti di bellezza, i gioielli industrializzati, gli stilisti sempre più obsoleti. Materia per la televisione e per i giornali, soprattutto i settimanali di storie virtuali, di tutta la gloria culturale e finanziaria del Festival resta quel momento quotidiano e il famoso photocall, cioè gli unici dieci minuti in cui un muro compatto di operatori ha davanti a sé i protagonisti dei film, che non sempre sono Penelope Cruz o Sharon Stone o Sean Penn o George Clooney, ma possono essere geniali autori filippini e vecchie interpreti messicane, e in questo caso sono giornate perdute, fossero pure dei geni, e i loro film dei capolavori, chi mai li vorrà? E in ogni caso, tanti giorni di film su film, di divi su divi, di finte feste su finte feste, non serviranno a far ricordare, pochi mesi dopo, neppure i titoli dei film vincitori, né a riempire i cinema o a intasare Internet: in quanti per esempio avranno visto, anche in Italia, la Palma d´oro 2010, assegnata dalla giuria presieduta dal bizzarro Tim Burton, cioè Lo zio Boobmee che si ricorda delle sue vite precedenti del tailandese Apichapong Weerasethakul? C´erano stati tempi strambi, quando ogni anno il festival pullulava di capolavori, in cui anche noi galoppini della stampa trovavamo il tempo di andare in spiaggia; ci sono stati tempi mitici in cui tutto pareva nuovo e ogni sera ci si aspettava un capolavoro e improvvisamente ci si innamorava del cinema giapponese: e in questo caso era una tortura per i critici di fama, allora vere star che incutevano soggezione, che quel cinema avevano esaltato, sopportare nel 1976 che un uovo sodo venisse introdotto nella vagina di una estasiata pallida bellezza in kimono, ne L´impero dei sensi di Oshima. Lietta Tornabuoni, che era già la più geniale e curiosa dei giornalisti di cinema, aveva un gran fiuto per scovare ciò che avrebbe inorridito i nostri Maestri: e mi trascinò a vedere Sweetie della allora sconosciuta giovane regista neozelandese Jane Campion. Fu stroncato da quasi tutti, in seguito pentiti, mentre noi ne esaltammo l´autrice. Più o meno da allora, ed era il 1989, Lietta ed io diventammo la coppia di giornalisti più evitata dai colleghi. C´erano anche per noi momenti magici, quando per esempio nella notte allora silenziosa, non ferita dal fracasso musicale di oggi, come un´apparizione si incontrava nella strada vuota quella coppia di massima eleganza, ancora per noi esotica, composta dal regista cinese Zhang Yimòu e dalla bellissima Gong Li, mano nella mano, lui in smoking perfetto, lei in un lungo abito candido di gran firma parigina. Ma da anni ormai la vita dei giornalisti, quindi anche la mia, in quel paradiso dei pensionati a basso reddito che è Cannes, si è fatta grama, e non solo, ma soprattutto, dal punto di vista professionale. Intruppati in un ingorgo di giornalisti internazionali, più di quattromila (i più importanti sono quelli asiatici, i meno ambiti quelli italiani), dopo anni in cui scarpinando e questuando si otteneva qualche incontro interessante, ho ottenuto nel 1991 l´ultima lunga intervista da sola con una diva, che era Madonna, al Festival con il suo A letto con Madonna. Anni dopo forse quindici minuti con Martin Scorsese difeso come tutti gli americani da un esercito di villanissime assistenti, in quella meravigliosa oasi di pace ridotta a fortino anti-giornalisti per soli miliardari che è l´Hotel du Cap, un bel po´ fuori città. Prima di darmi vinta però tentai un ultimo vergognoso blitz. Era arrivata Elizabeth Taylor che ormai il tempo, la buona tavola, la bottiglia e gli uomini di poco conto avevano allontanato dagli schermi: lei era lì a presiedere una serata di raccolta fondi per la ricerca sull´Aids, invisibile, irraggiungibile, asserragliata in una suite dorata. Fuori da quella porta, difesa da giganteschi energumeni, premeva una folla di giornalisti incanagliti e supplicanti, e io a gomitate ero arrivata in prima fila. Non restava che svenire cadendo a terra rumorosamente: non c´è nulla che impietosisca anche le più marmoree sentinelle, del corpo di una signora che pare morta, e poiché era impossibile fendere all´indietro il muro dei giornalisti, mi raccolsero e mi fecero entrare dove Elizabeth Taylor, piccolina, grassoccia ma ancora provvista dei suoi splendidi occhi viola, mi soccorse premurosamente, assieme alla sua corte di parrucchieri, estetiste, fidanzati, press agent e altro. Non fu un´intervista memorabile, ma insomma meglio di una porta chiusa. La verità è che il Festival di Cannes, assalito ogni anno da migliaia di addetti all´informazione (critici, coloristi, opinionisti, storici, gossipisti, cronisti, specialisti di moda, di ricevimenti e anche di menù), è diventato del tutto artificiale: è come se tutto ciò che pare succedere in realtà non succeda, e i giorni vivano di supposizioni e fantasie. Ma va bene così, perché per chi ama davvero il cinema, anche di questo 64° Festival che inizia mercoledì, resta la realtà dei film, dei capolavori inaspettati che ogni anno rinnovano il nostro piacere, la nostra meraviglia, la ragione per esserci e accettarne ogni finzione e burocratizzazione.