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 2011  maggio 07 Sabato calendario

Quando i discorsi politici sono capolavori (letterari) - Si dice che oggigiorno il vero politico non scriva da sé nemme­no il discorso che fa ai propri cari duran­te il pranzo di Nata­le

Quando i discorsi politici sono capolavori (letterari) - Si dice che oggigiorno il vero politico non scriva da sé nemme­no il discorso che fa ai propri cari duran­te il pranzo di Nata­le. Lascia fare tutto a spin doctor e speechwriter , profes­sionisti della strategia politica, della manipolazione mediati­ca e della parola più o meno en­gagé . Una sorta di estasi della comunicazione, dove persino il soggetto parlante si sfarina felice (o quasi) tra le premuro­se mani del suo staff. Ma non è sempre stato così. La poderosa antologia Parole al potere. Discorsi politici ita­liani (a cura di Gabriele Pedul­là, Bur, pagg. 1100, euro 17) te­stimonia di un’epoca, soprat­tutto precedente al 1945, in cui la politica era il luogo elettivo di una retorica sofisticata e ver­tiginosa, nonché di una buona sensibilità letteraria e di una perfetta capacità drammatur­gica. Autocontrollo assoluto di pensiero, gesti e parole: così il politico seduceva (da lonta­no, prima che la televisione lo portasse troppo vicino ai no­stri nasi) la masse elettorali. L’idea di una simile antolo­gia l’aveva già avuta Carlo Dos­si in una delle Note azzurre : «Fra i progetti letterari che la­scio in eredità a’ miei successo­ri vi ha quello di un’opera inti­tolata I fasti parlamentari ita­liani nella quale si riprodur­rebbero le sedute e le discus­sioni che influirono capital­mente sull’indirizzo di Italia». Il curatore e critico letterario Gabriele Pedullà (che è anche scrittore: Lo spagnolo senza sforzo , Einaudi) ha raccolto il suggerimento, mettendolo in epigrafe, e ha portato avanti una ricerca davvero certosina (alcuni scritti esistono in po­che copie) che arriva fino al ce­lebre discorso della «discesa in campo» di Silvio Berlusco­ni, tenuto ad Arcore 16 genna­io 1994, ultimo brano antolo­gizzato del volume, come a chiudere - o a iniziare? ­un’epoca. Il momento d’oro fu,comun­que, la seconda metà dell’Otto­cento e la prima del Novecen­to. Le orazioni erano conside­rate allora un genere letterario vero e proprio, e i politici aspi­ravano - in concorrenza con gli scrittori - a vedersi pubblica­ti nelle riviste di letteratura. Chi legge il breve ma intenso testo La politica come profes­sione di Max Weber, scritto nel 1919, vi troverà, tra altre me­morabili cose, una descrizio­ne delle affinità strutturali tra i mestieri dell’uomo politico, dello scrittore e del giornali­sta. Più o meno nella stessa epoca il critico Alessandro D’Ancona (con Orazio Bacci) inseriva nel suo Manuale della letteratura italiana ben quat­tro esempi di eloquenza parla­mentare (Cavour, Benedetto Ricasoli, Marco Minghetti, co­nosciuto come «l’uomo che parlava meglio al Parlamento italiano», e Quintino Sella) su un totale di settantatre scritto­ri. Quasi uno su diciotto, tra l’altro tutti appartenenti alla Destra storica. Quale percen­tuale avremmo oggi? A quel tempo quotidiani e riviste tra­ducevano persino dall’ingle­se, francese e tedesco le più belle allocuzioni dei leader stranieri, accompagnandole con articoli dove un reporter trasmetteva ai lettori gli aspet­ti extra-letterari, ma non extra­­retorici, dell’orazione (co­m’era vestito chi parlava, co­me gesticolava, che tono di vo­ce aveva). E poi, in tutto questo, c’era D’Annunzio, «Vate» pure nei discorsi politici. L’autore di Forse che sì forse che no riuscì a guadagnarsi un posto nella sto­ria d’Italia solo grazie alla pro­pria maestria stilistica e alla convinzione - ereditata dalla Rivoluzione francese - che si potesse guidare la politica con parole potenti e incisive. An­che Marinetti e Sem Benelli (e più tardi Guglielmo Giannini, che faceva ridere l’intero Parla­mento, eccetto Dossetti, con sconce barzellette) tentarono di seguire le orme di D’Annun­zio. Ma ebbero meno fortuna: «Ogni volta che si apre una gra­ve crisi politica - ci spiega Pe­dullà - provano a scendere in campo gli uomini di lettere o di spettacolo, ma difficilmen­te hanno successo. Nel secon­do Novecento, poi, lo scrittore ha la tendenza a essere più ana­­lista della lingua che oratore in proprio». Nel Dopoguerra - prima per il rifiuto culturale dell’oratoria fascista, poi per il dilagare del­le tecnologie- il politico «mara­toneta » del discorso, che riu­sciva a tenere concioni di tre ore a piazze di migliaia di per­sone, in una specie di proces­so educativo alla collettività, si trasformò in un inquietante soggetto che parlava «politi­chese » (negli anni ’70 e ’80, con poche eccezioni: Pietro Nenni le cui metafore erano ammirate da Pasolini), per poi riguadagnare di nuovo terre­no come «centometrista»: dal­l’intervento più eccentrico del nostro recente passato (Marco Pannella per venticinque mi­nuti imbavagliato durante la Tribuna elettorale del 18 mag­gio 1978) fino alle battute ful­minanti e prive di pensiero nei nostri talk show. Ormai è tutta una corsa. All’audience.