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 2011  maggio 06 Venerdì calendario

RIDATECI IL PADRONE - LEGGERE OGGI

Il Padrone di Goffredo Parise è un’esperienza che mi sento di consigliare caldamente, poiché questo romanzo rappresenta perfettamente il clima politico e intellettuale dal quale, negli anni Sessanta, nasceva e prendeva forza una presa di posizione estremamente critica di molti importanti intellettuali italiani riguardo al lavoro e a quella che è una delle sue più immediate declinazioni, il rapporto tra il titolare e il dipendente.
Certo, il romanzo – che è uscito nel 1965 e in quello stesso anno sembrerebbe ambientato - non pretende di essere un documento sulle reali condizioni della figura fatidica del giovane che, in quegli anni tumultuosi di vero miracolo economico, dalla provincia si trasferisce in città per trovare lavoro e provvedere a se stesso.
Certo, Il Padrone è evidentemente un’opera metaforica che spesso sconfina nel grottesco, scritta con maestria e abbondanza da Parise in un tono che si muove inquieto tra il trasognato e il secco, riflettendo l’oscillare della coscienza del protagonista che si racconta in prima persona in un monologo ossessivo e precipitante che, credo, potrebbe trovare in teatro una splendida riuscita.
Ma la vera protagonista della storia è l’alienazione. Non c’è un personaggio, in questo bel romanzo che il tempo ha superato in tromba e fatto invecchiare malamente, che non sia già alienato o non lo diventi nel corso del libro, proprio a causa del lavoro e delle assurde modalità con cui lo si svolge in quella spettrale, assurda ditta commerciale.
Dovevano essere davvero anni felici, quelli in cui l’Italia cresceva ai ritmi della Cina di oggi, e poteva vantare la piena occupazione, e un autore importante come Parise scriveva un romanzo in cui del lavoro in fabbrica si dava una visione così distorta e negativa! Splendida e invero invidiabilissima la condizione dell’intellettuale di quel tempo, che, mentre le fabbriche straripavano di operai e lavoro, poteva dedicarsi a mostrare l’assurdità beckettiana di ogni occupazione umana - dunque anche del lavoro - e divertirsi a dipingerne quel ritratto paranoico che sorte da Il Padrone! Quanta differenza con l’oggi, dove invece mi pare assolutamente necessario per un intellettuale sporcarsi le mani e indicare ogni giorno il pericolo mortale della mancanza di lavoro per le nostre ragazze e i nostri ragazzi, e l’inutilità e l’indegnità della sua frammentazione in microlavori che non servono a nulla e non insegnano nulla. Non c’è compito – vorrei quasi dire lotta – più importante per un intellettuale, oggi, che investigare la causa del disastro occupazionale in cui ci troviamo, e dare le colpe a chi le merita, e forse anche proporre una possibile via d’uscita. Nel mio piccolo, questo cerco di fare, cercando di dimenticare il piacere puro che proverei, invece, a scrivere di narrativa.
Infinita è la differenza tra quell’Italia e la nostra, e anche se è ovvia la necessità di contestualizzare le intenzioni più profonde del libro di Parise, non posso nascondere il male che mi fa rileggere questo libro aspro, nel quale il lavoro appare solo una dannazione dell’anima e del corpo, una scorciatoia verso l’impazzimento, il risultato della perdita collettiva di quel prezioso senso di sé che riempie e costituisce la vita delle persone - e tutto per colpa del padrone.
Sono stato un “padrone” per quindici anni, nell’azienda di famiglia che aveva fondato mio nonno, e che mio padre aveva affidato a me. Era un piccolo lanificio di Prato che, nel suo periodo di massimo fulgore, contava una quarantina di dipendenti. E, credetemi, il lavoro spesso frenetico che vi si conduceva non aveva nessun punto di contatto con la vuota stasi paranoica che pervade il romanzo di Parise. Zero. Assistevo invece, ogni giorno, alla dimostrazione pratica di cosa voleva dire davvero impegnarsi a fondo e sacrificarsi per un’azienda, ed erano proprio i miei dipendenti a regalarmela, incarnando quell’etica del lavoro così spesso invocata di chi non la conosce. Perle di convivenza che l’avvento di una globalizzazione selvaggia ora rischia di disperdere per sempre, lontane mille miglia dalle disperate avventure dei personaggi di Parise.