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 2011  maggio 06 Venerdì calendario

Lucio Lami, reporter dei conflitti di fine secolo - L’inviato di guerra. Una professione che nei giornali va sempre me­no di moda

Lucio Lami, reporter dei conflitti di fine secolo - L’inviato di guerra. Una professione che nei giornali va sempre me­no di moda. Praticar­la, nel migliore dei casi costa caro. Nei peggiori, può arrivare a costare la vita. Senza contare che, a molti, appare ormai come obsoleta la fati­cosa corsa alle notizie, spersi sul fronte di una guerra qualunque, mentre in redazione, grazie alla Re­te, piovono agenzie, filmati e im­magini di ogni tipo. E se si guarda al contesto globale, davvero chi è sul posto raccoglie meno informazio­ni di chi è dentro un network. Eppu­re il vero inviato, capace di cogliere il peso di un particolare, di un detta­glio quasi invisibile in mezzo alla polvere e agli spari, può raccontare al lettore ciò che non si troverà mai in un accrocchio di veline, di grafi­ci con gli aeroplani e i carrarmatini. Questa almeno è l’impressione che si ha leggendo Giorni di guer­ra. Cronache dai conflitti di fine se­colo di Lucio Lami, ponderosa rac­colta dei reportage che il giornali­sta scrisse per il Giornale dal 1980 al 1985 ora proposta in libreria da Mursia (pagg. 300, euro 19). Questi articoli scritti da alcuni dei fronti più caldi della nostra storia recente - la frontiera Iran-Iraq, la Cambo­gia, l’Irlanda dell’Ira,il Libano,l’Af­ghanistan... - contengono quasi sempre quel dettaglio che trasfor­ma un fatto di sangue lontanissi­mo, in qualcosa che riesce a tocca­re chi se ne sta a casa con il giornale o il libro sulle ginocchia. Per dirla in sociologhese, creano empatia. Per dirla semplice,danno l’impres­sione lì. E in queste pagine di giornali­smo vissuto pericolosamente gli esempi di questo stile, che come di­ce Lami si imparava anche viven­do di «ambizioni e di esaltanti lettu­re », sono tantissimi. Per racconta­re il coprifuoco a Baghdad durante la guerra con l’Iran, il silenzio im­mobile di un’intera città, Lami, gio­ca di penna quasi fosse Salgari: «Il cielo trapuntato di stelle, grandi e vibranti,è l’unica realtà rimasta in­tatta... e i Suba, ultimi esponenti di una setta che adora gli astri, vi leg­gono il futuro come ai tempi di Na­bucodonosor ». Quando si tratta, invece, di descrivere la guerra guer­r­eggiata non cede al gusto del tragi­co, mette a fuoco i dettagli, come nella presa del porto di Khor­ramshahr da parte degli iracheni. Per descrivere la furia del canno­neggiamento racconta i moli in­gombri di merci devastate: «Ho vi­sto montagne di giocattoli cinesi, di posate, di frullatori, di macchine per cucire, sparsi ovunque al suolo dentro scatoloni sventrati».E quan­d­o si tratta di descrivere i terribili ef­fetti della dittatura khmer in Cam­b­ogia si sofferma sui giovani induri­ti dalla guerra, ma con una narra­zione che diventa di colpo asciutta, misurata: «I ragazzi che al tempo della rivoluzione si erano costruiti una solida fama di bambini cinica­mente obbedienti e lugubremente sanguinari, adesso sono robusti e cotti dal sole... piccoli robot della morte, hanno solo cambiato uni­forme ». E questo tralasciando pagi­ne densissime come quelle libane­si che descrivono l’attentato con­tro il comando americano e france­se: danno i brividi, sembrano una truce premonizione dell’Undici settembre. Insomma val la pena di leggere Lami e di chiederci se il reportage davvero è destinato a essere sem­pre più un genere da «dinosauri». Forse sì, ma sarà un peccato. Certe pagine di giornalismo magari non faranno accorrere orde alle edico­le, però rendevano onore a una pro­­fessione e anche alla letteratura. Al­meno a dar retta a Saint-Exupéry: «L’essenziale non sta nelle robuste soddisfazioni del mestiere, né nel­le sue miserie, né nei suoi pericoli, ma nel punto di osservazione al quale ci innalzano».Lami si è sedu­to, non stando mai fermo, su un bel cucuzzolo.