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 2011  maggio 06 Venerdì calendario

L’ORGOGLIO AMERICANO. ORA TOCCA ALL’INDUSTRIA

Dopo l’esaltazione per aver finalmente eliminato l’uomo che era, da dieci anni, il suo incubo, l’America torna alla realtà poco esaltante di tutti i giorni: i dati dell’occupazione che rimane a livelli assai depressi, lo schiacciante deficit commerciale con la Cina, la battaglia in Congresso per alzare i limiti di un debito pubblico divenuto esso stesso una minaccia per la nazione. Eppure barlumi di orgoglio del Paese che non si rassegna al declino si vedono, oltre che nei campi di battaglia e nella lotta al terrorismo, anche nell’America che lavora e produce. Solo due anni fa non solo l’industria dell’auto era (salvo la Ford) in bancarotta: tutto il settore manifatturiero sembrava destinato a scivolare progressivamente verso l’Asia e l’America Latina. E Andy Grove — l’uomo che negli anni ’ 80 e ’ 90 del Novecento ha fatto dell’Intel il gigante mondiale dei microchip — teorizzava l’impossibilità per l’industria elettronica Usa di contrastare efficacemente la concorrenza cinese, sostenuta dai bassi costi ma anche da una serie di incentivi e sovvenzioni governative illegali, se non con la rappresaglia dell’erezione di barriere protezioniste. L’America ha resistito alla tentazione di chiudersi a riccio, le imprese si sono rimboccate le maniche innovando e ristrutturando. Oggi l’Intel non solo rimane un leader indiscusso, ma aggredisce il mercato con microprocessori di nuova generazione: piccoli grattacieli (gli attuali chip sono piatti) più potenti e a bassissimo consumo realizzati utilizzando la tecnologia 3D. Una «favola a lieto fine» (anche se poi mantenere negli Usa il lavoro generato dai successi tecnologici non è sempre facile) come quella delle Case automobilistiche il titolo di Big three di Detroit. Al ritorno al profitto della Chrysler di Marchionne fanno riscontro il rilancio di Ford e General Motors. La svolta è iniziata l’anno scorso, ma pochi credevano che potesse consolidarsi in un’economia ancora depressa e col prezzo della benzina alle stelle. Invece la loro situazione, oggi, è la più promettente dell’ultimo ventennio proprio mentre i dominatori giapponesi— Toyota, Honda e Nissan— sono in grave difficoltà. Per il terremoto che ha colpito il Paese, ma anche per i difetti di alcune vetture e la vulnerabilità della loro catena logistica. È presto per trarre conclusioni: le case nipponiche hanno risorse finanziarie infinite e un gran numero di nuovi modelli nella pipeline, mentre Detroit non brilla per innovazione. Ma la ristrutturazione è stata efficacissima, i costi sono stati abbattuti e oggi tutto il settore manifatturiero, non solo l’auto, è in ripresa. Solo un raggio di sole, davanti agli 8 milioni di posti di lavoro persi con la recessione, ma chi avrebbe scommesso in una riscossa dell’industria Usa che parte da Michigan, Ohio e Indiana, gli Stati della rust belt, la ruggine industriale?
Massimo Gaggi