Marino Longoni, ItaliaOggi 6/5/2011, 6 maggio 2011
Giù le mani dai beni libici in Italia - I sette miliardi di euro di beni libici congelati in Italia, almeno per ora, non si toccano
Giù le mani dai beni libici in Italia - I sette miliardi di euro di beni libici congelati in Italia, almeno per ora, non si toccano. Ieri il Consiglio nazionale transitorio, rappresentanza ufficiale degli insorti, è venuto a Roma con la richiesta di finanziamenti per 3 miliardi. Fondi che si sarebbero dovuti recuperare dagli investimenti fatti dal regime di Gheddafi nel nostro paese, attualmente sotto sequestro. La risposta dei paesi che compongono la coalizione internazionale è stata cortese, ma sostanzialmente negativa. Sarà invece costituito un Fondo speciale (non si sa bene come finanziato) che permetterà di venire incontro ai bisogni più urgenti dei ribelli; ma i beni congelati non si toccano. Il motivo è semplice. Quei fondi sono rivendicati anche dalle nostre aziende che, a causa della guerra, hanno perso contratti in Libia per 5 miliardi di dollari. I beni libici sono costituiti innanzitutto da 2 miliardi di euro in azioni, depositi e fondi in Unicredit, dove la Central Bank of Lybia e il fondo sovrano Lybian Investment Authority posseggono assieme circa il 7,5% del capitale. Altri 5 miliardi sono stati investiti dalla Banca centrale e da altri fondi di investimento sovrani in Mediobanca, Finmeccanica, Eni, Ratelit, Juventus, Fiat ecc. Queste partecipazioni libiche sono state congelate sulla base delle indicazioni della risoluzione dell’Onu n. 1973 del 17 marzo, recepita con un regolamento europeo. In realtà nell’ordinamento giuridico italiano non esiste la figura del «congelamento di beni». La risoluzione europea vieni quindi attuata semplicemente tenendo ferme queste disponibilità economiche, in attesa che si risolva il conflitto. Si tratta però di un patrimonio che potrebbe essere aggredibile da aziende italiane o comunitarie che hanno subito un danno dalla guerra e volessero adire al Centro internazionale di risoluzione delle dispute in materia di investimenti previsto dal Trattato bilaterale Italia-Libia in materia di promozione e protezione degli investimenti, ratificato nel 2004. Questo il motivo per cui la richiesta del Consiglio nazionale transitorio libico, per quanto umanamente ineccepibile, da un punto di vista giuridico non si può soddisfare. I fondi non si possono scongelare in mancanza di un regolamento dell’Unione europea, che dovrà basarsi su motivazioni concrete per superare la risoluzione che ha motivato il precedente regolamento. Oltretutto la risoluzione dell’Onu e il regolamento comunitario prevedono che le disponibilità libiche vengano congelate per essere messe a disposizione dello popolo libico: attualmente i ribelli ne rappresentano solo una parte. Si tratta infine di fondi investiti da organismi formalmente privati (pur se posseduti dallo stato libico) che quindi, anche per questa ragione, non potrebbero essere messi a disposizione dei ribelli. In effetti le aziende italiane ed Europee sono andate in Libia anche perché potevano contare sul fatto che in Italia c’erano molti investimenti libici e buone relazioni politiche e diplomatiche. Lo conferma l’avvocato Paolo Greco dello Studio P&A Legal di Tripoli che ancora segue gli interessi dei suoi clienti in Libia: «In effetti i fondi libici congelati costituivano una garanzia implicita per le imprese che avevano deciso di avviare attività in quel paese, anche perché si tratta di fondi facilmente aggredibili, con un banale pignoramento presso terzi. Si tratterebbe di acquisire le quote libiche a risarcimento del danno subito dalle nostre imprese, per poi venderle sul libero mercato». È un’operazione che, pur non avendo precedenti a livello internazionale, fa «riferimento al Trattato bilaterale sulla promozione-protezione degli investimenti», continua Greco, «il quale prevede che l’investitore che subisca danni a causa di guerriglia, ribellioni o atti bellici, ha diritto a un risarcimento danni da parte dello stato. È esattamente quanto successo con la guerra civile che si è scatenata in Libia e che ha motivato la risoluzione dell’Onu».