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 2011  maggio 06 Venerdì calendario

FOER: «LA FERITA NON E’ ANCORA CHIUSA. QUEL LUOGO A NEW YORK RESTA UN IBRIDO» —

Nel suo secondo romanzo «Molto forte, incredibilmente vicino» (Guanda Editore), da cui il regista Stephen Daldry ha tratto l’imminente film con Sandra Bullock e Tom Hanks, Jonathan Safran Foer è stato uno dei primi scrittori americani ad affrontare il tema degli attacchi terroristici dell’ 11 settembre. «Da Ground Zero sboccia un romanzo» , scrissero allora i critici. Ma dieci anni più tardi, mentre Barack Obama fa la sua prima visita da presidente a Ground Zero, anche il «mood» di Foer è cambiato. «Scrissi quel libro spinto da un impulso fisico incontrollabile — racconta Foer — ma se allora non avrei potuto fare diversamente, oggi sento di poter scegliere. Perché quel buco nero è stato metabolizzato, diventando parte integrante di me» . Quando è stata l’ultima volta che ha visitato Ground Zero? «Tanto tempo fa, ma per puro caso, subito dopo l’ 11 di settembre. Non ho alcun motivo per andarci, nulla da fare o da vedere» . Metabolizzare vuol dunque dire dimenticare? «Ground Zero ha la sfortuna di essere ubicato in una zona di New York dove nessuno mette piede, tranne i finanzieri di Wall Street. Un luogo perciò vittima di amnesia collettiva, di cui è impossibile ignorare la straripante presenza quando ci sei ma di cui ti dimentichi subito quando ne sei lontano» . Come sarà vissuto dalle future generazioni? «Per i posteri Ground Zero resterà per sempre il luogo dell’orrore. I video delle Torri in fiamme sono le immagini più viste nella storia dell’umanità perché definiscono la nostra era, facendo leva sulla nostra paura dell’apocalisse e della morte» . La morte di Osama Bin Laden e l’imminente anniversario lo renderanno di nuovo rilevante? «Da luogo di trauma, Ground Zero doveva evolvere in luogo della memoria ma per quasi dieci anni non è stato nessuna delle due cose. Oggi la ferita non è né aperta né chiusa e il World Trade Center è un ibrido, un cantiere pieno di gru, fisicamente identico a tutti i cantieri del mondo» . È la dimostrazione, forse, della capacità dell’America di voltare pagina e andare avanti? «Non direi. Nessuno si aspettava che per ricostruirlo ci volesse così tanto tempo. Dieci anni sono un’enormità se si pensa che l’Empire State Building è stato eretto in soli due mesi. Tutti sono ansiosi di vedere questo luogo rinascere ma ciò non accadrà finché la gente non vi tornerà a vivere e lavorare» . A chi spetta il compito di rielaborare la narrativa di quei giorni? «Storicamente quel compito spetta ai vincitori. Il cantastorie della nostra era è Barack Obama, come lo è stato George W. Bush prima di lui. A riallacciare i fili della memoria saranno poi giornalisti, storici e artisti che ne parleranno come di un simbolo diverso a seconda della latitudine e della longitudine» . Che cosa intende dire? «Per tanti americani che magari non hanno mai messo piede a New York è una metafora, forte quanto astratta. Il patriottismo di certa gente che vuole andare in Iraq e Afghanistan a bombardare Al Qaeda s’ispira al senso di rabbia e di vendetta contro il terrorismo che non ha nulla a che fare con il vero Ground Zero» . Che cosa cambierà con l’inaugurazione del Memoriale il prossimo settembre? «Ilmemoriale di Daniel Libeskind è un’opportunità mancata e una vergogna, anche se, come ha scritto il New York Times nel celebre articolo sull’"architetto dimezzato"il ruolo di Libeskind è stato notevolmente ridimensionato. Invece di scegliere il brillante e rivoluzionario progetto dello studio di Steven Holl e Peter Eisenman si è preferito il disegno più monotono e banale di tutti. Come al solito il commercio ha trionfato sulla creatività e il coraggio» . Pensa che la letteratura americana continuerà a confrontarsi con quella traumatica esperienza? «Il tempo l’ha trasformata in un soggetto meno incandescente e quindi più facile da maneggiare. Penso che per molti scrittori l’ 11 di settembre oggi sia qualcosa che puoi toccare senza il timore di bruciarti» . E per il resto del Paese? «Tutti abbiamo acquisito un senso di prospettiva che solo il tempo è in grado di darti. Proprio come di fronte a una grande tela: più ti allontani e più è facile cogliere l’insieme mentre da vicino puoi al massimo carpire qualche dettaglio minore. Credo che l’America per la prima volta oggi abbia raggiunto la giusta distanza che le permette di mettere a fuoco con chiarezza l’intero quadro» . E i libri di storia cosa diranno? «Dovranno fare ciò che è stato fatto con l’Olocausto ebraico per conciliare il bisogno di chiudere il cerchio senza dimenticare. La sfida per Ground Zero, come per la Shoah, è trovare la prospettiva giusta, equilibrata ma insieme non estranea al pathos» .
Alessandra Farkas