Adriano Sofri, la Repubblica 6/5/2011, 6 maggio 2011
IL CERCHIO SIMBOLICO DI OSAMA
Una gran parte degli umani che abitano oggi la Terra è nata così tardi da non aver sperimentato lo sgomento di fronte alla novità di uomini (e donne, quando non erano forzate) entusiasti di uccidere e uccidersi in un colpo solo, e guadagnarsi il premio abbagliante del "martirio".
La mutazione era in corso da tempo quando Bin Laden se ne fece imprenditore e la spinse al doppio culmine delle Torri gemelle, e di autori né disperati né poveri, ma istruiti, agiati, e passati attraverso vetrine e notti d´Occidente. Li chiamammo kamikaze, facendo torto a quei soldati, e a tutti i "pronti alla morte" per amore di una causa o di un semplice compito, pompieri di Ground Zero o di Fukushima: questo nuovo nemico dileggiava l´amore per la vita e corteggiava la morte.
Una vocazione lugubre sfidava ogni convenzione umana, costringeva a figurarsi dentro ogni passante un terrorista, spingeva a costruire muraglioni o ad aprire il fuoco a distanza, alla cieca. Era la bomba atomica dell´altro mondo del fanatismo islamista (e non solo), e un rapido contagio lo fece passare da drammatici casi iniziali – qualche giovane curda incinta di esplosivo a un posto di polizia turco – a un inarrestabile e anonimo reclutamento di massa.
Gli attentati suicidi fanno ancora strage, e continueranno, ma la loro efficacia è sempre più scarsa. Al contrario, mutamenti profondi sono stati messi in moto da scelte opposte, dai suicidi di giovani operai che hanno scosso la Cina industriale di Shenzhen, al rogo di Mohamed Bouazizi in Tunisia. Gesti che rifiutano di investire la propria morte nelle morti del nemico, e ne testimoniano l´iniquità. Ricordate la frase del giovane tunisino alla madre: "Rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me". Quei suicidi – come di migliaia di contadini indiani – erano meno "politici" di quelli dei monaci di Saigon o di Jan Palach, eppure hanno cominciato a trasformarsi nelle scintille di un incendio. Così i giovani maghrebini raccontati qui da Bernardo Valli mettono fuori gioco il delirio dei "kamikaze". Per questo la coincidenza fra la primavera araba e la fine di Osama Bin Laden è apparsa come il suggello di un trapasso. Simbolico e però materiale, perché l´azione di Abbottabad ha una irruenza fisica come poche, e la sua riserva di invisibilità è fatta per accrescere la suggestione di immagini e immaginazione. Mi piacerebbe che il cerchio simbolico chiuso dalla fine di Bin Laden si allargasse a comprendere un passato più lungo.
La condizione del mondo sembra ora aprirsi a un´ispezione autoptica – soprattutto dopo la crisi finanziaria, una vergogna di cinque minuti e un baldanzoso ritorno ai bonus. Si solleva una pietra e viene fuori un brulichio inimmaginato, come col popolo di formiche asiatiche e africane che spiega la tenuta delle grottesche dinastie arabe.
Noi abbiamo paura dei cambiamenti. Abbiamo ancora molto da perdere, e ci illudiamo di conservarlo tenendo fermo il mondo. La stessa paura che gli autocrati cinesi (la più preparata classe dirigente) mostrano di avere di un loro Egitto e degli sdentati versi di una canzone di Dylan, alimenta la paura che il mondo ha di un rivolgimento in quell´impero. Ci siamo talmente abituati a confidare nei satrapi "moderati" coi quali facciamo affari, che temiamo che cadano sotto i colpi, non di Al Qaeda, ma di inermi ribellioni popolari.
Avevamo noleggiato la Libia di Gheddafi, piena di quei migranti schiacciati, per sequestrare i migranti rivolti alla nostra costa, e ora che, per qualche calcolo elettorale, dei governi gli si oppongono, li sospettiamo di mirare al petrolio: ma quel Gheddafi era il più solido fornitore di greggio e prospezioni. Un domino periglioso ci fa paventare la caduta del Bahrein, che può trascinare l´Arabia Saudita, e così via. Le cacciate di uno scià possono andare a finire con l´avvento di un ayatollah, e le celle di tortura restare comunque piene, ma l´esortazione che abbiamo sentito riecheggiare in questi giorni – "Non abbiate paura!" – è ancora essenziale. Come con i terremoti, i sommovimenti sociali cui assistiamo possono coprire l´intera scala sismica. Ci sono troppi luoghi del mondo in cui i grandi numeri - i milioni di morti di tante "guerre" africane e repressioni asiatiche - costringono i giovani a scandalizzarsi che tanto spazio sia dato al rango di un Osama.
Il metodo comparativo è fuorviante e inevitabile: che cosa sono i tremila di Manhattan di fronte ai milioni del Congo? E però dei gesti singolari e senza ambizioni, diserzioni da battaglie altrui, mettono in moto rivolgimenti collettivi a viso aperto, rivendicano un futuro. E possono accomiatarsi da un passato che vada indietro fino al tornante della guerra del Vietnam che gli Usa persero per una doppia resistenza, dei vietcong e dei giovani americani obiettori. Dopo, fu quella partigiana a prevalere nei movimenti di ribellione, i due e tre e mille Vietnam, piuttosto che la secessione insieme individuale e solidale di giovani che dicessero come Bartleby: "Preferirei di no". Gentile e laconica com´è, la dissociazione dello scrivano è la più irriducibile. E´ passata attraverso alcuni varchi dei nostri anni, illuminandoli e venendo subito schiacciata, come nel giovane che danzava davanti al tank della Tiananmen, poco fa emulato in una piazza del Bahrein da uno che non era nato e avrà visto il filmato su You Tube.
Chi ricordi la bancarotta dell´operazione di recupero degli americani sequestrati a Teheran 1980, può valutare a quale azzardo si sia esposta l´amministrazione Usa. (E lo stesso Obama è ora più che mai un bersaglio). Bin Laden è stato pagato della sua moneta, e l´America continua a sentirsi esonerata da un tribunale e una polizia internazionale e si fa giustizia da sola, e del resto trova fin troppe buone ragioni. Ma occorre altro: non è vero che la politica non possa se non spostare più in là all´infinito il problema. Da noi, dove si combinano in modo inestricabile vecchiezza, diritti e privilegio, non facciamo che spostare più in là il problema, come la monnezza. Ma la terra è piena di persone tanto giovani da non essere né attratte né costernate dai kamikaze, e magari nemmeno dalle nostre vetrine. "Preferirebbero di no", forse. Forse ci stanno provando. Forse è bene che non ne abbiamo paura.