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 2011  maggio 04 Mercoledì calendario

Il mio lutto per il mostro - È una guerriera e non lo sembra affatto, Natascha Kampusch: piccola, burrosa, le mani delicate e morbide, la pelle di porcellana, i lunghi capelli setosi da madonna esangue, la voce sottile, da bambina

Il mio lutto per il mostro - È una guerriera e non lo sembra affatto, Natascha Kampusch: piccola, burrosa, le mani delicate e morbide, la pelle di porcellana, i lunghi capelli setosi da madonna esangue, la voce sottile, da bambina. E gli occhi: trasparenti e azzurri come un cielo nordico, senza una nuvola. Ma tu la cerchi, la nuvola, non può non esserci, anzi dovrebbe essere un turbine nero, di quelli che annunciano l’apocalisse. La cerchi e lei lo sa, ti guarda con quello sguardo baltico e non ti dà soddisfazione: quegli occhi hanno visto ben altro che l’ennesimo giornalista insinuante e da anni si sono chiusi – brillanti e impenetrabili come specchi – alla curiosità morbosa della gente. OLTRE LO SPECCHIO Qui le regole le faccio io, sorride muta la bocca dai denti dritti, solo un tic ogni tanto contrae la spalla destra a qualche domanda che prova a sbirciare dietro lo specchio; e solo un rossore affiora sotto la porcellana quando le domandiamo se quando sarà madre accompagnerà sempre sua figlia a scuola: la risposta non arriva subito, ma è sì, probabilmente, sì. Il rosa delle guance è domato appena le viene in mente una battuta: «Anche se non credo che davanti a scuola mia figlia gradirebbe, magari a 16 anni, il bacino di mammina che le lascia il segno del rossetto o le sistema la giacca, no?». Le possibilità che questo avvenga al momento sono lontane: non c’è ipotesi di figlia, e neanche si ammette un fidanzato. Ma se mai ci fosse, «ognuno a casa sua, ho bisogno della mia indipendenza». Non sappiamo il tedesco, un interprete traduce. Avrà detto indipendenza o libertà? Nel suo caso, sono perfetti sinonimi. LA GIACCA A VENTO ROSSA Natascha Kampusch ha 23 anni, vive a Vienna: qui fu rapita il 2 marzo del 1998, a 10 anni, il primo giorno che andava a scuola da sola, cinque minuti a piedi con lo zaino colorato e la giacca a vento rossa, una bambina come tante, presa a caso ma non per caso da Wolfgang Priklopil, pazzo paranoico trentenne, appostato accanto al suo furgone come un cacciatore al cespuglio, in attesa che passasse l’uccellino più inerme e solo, un passerotto caduto dal nido che giusto la sera prima aveva litigato con la mamma ed era uscito senza salutarla. Il cacciatore aveva costruito per la sua preda implume, la schiava che avrebbe dovuto riscattare con la sua innocenza e la sua infantile duttilità una vita incapace di essere vissuta tra gli adulti, una gabbia, una tomba senz’aria e senza luce – meno di 5 metri quadrati ammuffiti – sotto la cantina della sua villetta. E fra la tomba e il mondo aveva messo mobili, sbarramenti, cunicoli, una porta di cemento armato da caveau: per terra un materassino da sdraio, accanto un gabinetto. Natascha riuscì a scappare il 23 agosto 2006, otto anni e mezzo dopo, maggiorenne da sei mesi: e 3096 giorni è il titolo del libro che ha scritto per raccontare la sua prigionia. Già uscito in moltissimi Paesi, tradotto in 40 lingue, a lungo in classifica anche al primo posto delle vendite, il libro esce ora in Italia: se ne farà anche un film, ma la scomparsa del produttore tedesco che aveva a cuore il progetto ha ritardato i tempi. Il libro è intenso e se ne apprezza soprattutto il tono asciutto, l’acutezza e la sincerità con le quali l’autrice scava nella sua famiglia dissestata, nel suo aguzzino e, senza sconti, in se stessa. È un libro senza lacrime: le provoca, forse, ma non le versa, non sull’inchiostro. Natascha ha un’intelligenza fine, oltre che una forza eccezionale. Ha subìto torture e maltrattamenti disumani, che lasciano senza fiato chiunque abbia nel cuore una bambina della sua età e non sa immaginarla di notte se non al sicuro nel suo letto tra i peluche: a Natascha è stato imposto l’isolamento per sei mesi. «Come ho fatto a non soccombere? È un mistero anche per me»: la fame fino al delirio, il buio, le punizioni, i ricatti, i pugni, i calci, i morsi, le ustioni, le coltellate perfino, le urla dell’aguzzino all’improvviso nella notte – «Ubbidisci, ubbidisci, ubbidisci» –, la rasatura completa del cranio, le pulizie ossessive, il cambio del nome – proibito chiamarsi Natascha – il divieto di vestirsi, l’obbligo, diventata donna, di dormire accanto al mostro, che aveva bisogno di un delirante surrogato di coccole, coi polsi serrati a sangue in fascette stringicavo. E molto altro. Più volte lei ha provato a suicidarsi. Il rapitore ha tentato di convincerla che i suoi genitori l’avessero dimenticata, a farla inginocchiare per chiamarlo maestro, a farsi venerare: «Io ti ho creata», diceva, «sono un dio egizio». In questi casi il mostro ha fallito, mai l’ha piegata fino a farle perdere la speranza di tornare a casa e il rispetto di se stessa. Piuttosto, ha perso lui, che senza il passerotto scappato dalla gabbia si è subito suicidato. Era malato, e lei no. Ha mille risorse: quando a 12 anni ha davvero paura di soccombere, trova la forza d’immaginarsi diciottenne, e quella ragazza grande le ripete: «Ti tirerò fuori di qui, te lo prometto». «MA FORSE SONO IMPAZZITA» Come ha fatto a non impazzire? Tranquilla, leggera perfino, Natascha risponde: «Si pone il dubbio… Ma forse sono impazzita… Solo che non me ne accorgo». Non è pazza, certamente. Gravemente danneggiata, è ovvio. Racconta come in fondo anche l’idea di scappare a un certo punto si fosse fatta remota, perché le pareti della sua gabbia psicologica erano diventate altissime. «Da un lato le vere occasioni sono state due o tre soltanto, dall’altro la paura era insormontabile, la prigione era dentro di me». Ora della prigione reale, di quella villetta rispettabile con annessa camera delle torture, è diventata proprietaria: gliel’hanno data, una specie di risarcimento. Ha accettato: non voleva correre il rischio che al posto suo la prendesse qualche maniaco per farne un museo degli orrori. Ci è tornata, qualche volta, per incombenze. È scesa nella cella? «Sì». IL TEMPO PERDUTO Se nel suo loculo, da bambina, ricordava il profumo della nonna e il fruscio del suo grembiule, disegnava cuori per la mamma, si obbligava a raccontarsi favole e a tenere il conto dei giorni, sfiorava per addormentarsi la parete per immaginare sotto le dita la carta da parati della sua cameretta, oggi è una ragazza che, costretta in un inferno di tenebra, è tornata indietro, viva, solo grazie a sé, e forse è questa consapevolezza, quest’orgoglio di sopravvissuta, a farle superare gli ostacoli della libertà. E ce ne sono molti. Recuperare il tempo perduto, il primo. «Il mio rapitore mi istruiva, a modo suo. Libera, sono arrivata a un diploma: ho preso lezioni di matematica, tedesco, inglese e anche russo. Mi piaceva l’idea, sembro un po’ russa, no? Mi chiamo Natascha... Ma voglio fare molte cose, esperienze e lavori. Sto anche imparando a fare un po’ di oreficeria, ho comprato il banchetto da lavoro e il recipiente per fondere i metalli. E vorrei provare a vivere per un po’ in un’altra città: Amsterdam, o Londra, Oslo no, troppo buio. Via un annetto, e poi tornare qui». Ha fatto e fa televisione, condotto interviste. Vive quasi sempre osservata: in Austria è famosissima. La sua voglia di andare avanti è stata giudicata con durezza, interpretata con malanimo e fastidio. La polizia, che ha grande responsabilità nel non averla cercata dov’era pur avendo precise segnalazioni, l’ha interrogata per anni. «Sono successe cose spiacevoli. Non potendole cambiare, le rimuovo». Tra la gente, comprensione e compassione si sono tramutate in ostilità e sospetto: «All’inizio le persone provavano una specie di orrore per quanto di eccezionale mi era successo, poi gli facevo pena e mi consideravano inferiore… Infine, quando hanno visto che ero autonoma e non vagavo per le strade vestita di stracci, è scattata anche l’invidia. L’invidia, sì: c’è gente che farebbe di tutto per avere un piccolo cammeo in una schifosa trasmissione del pomeriggio». MALDICENZE SU GOOGLE D’altronde basta cercare su Google per incappare in un’oscena maldicenza: la sua vicenda è spesso definita «controversa», come a insinuare una qualche colpa o connivenza. E le voci di un suo interesse a capitalizzare la prigionia si lasciano intercettare, in sottofondo. «Cerco di aiutare le persone vittime di violenze a costruirsi un futuro, e lavoro sulla prevenzione: non ho mai sfruttato il mio ruolo per i soldi o la celebrità, eppure ci sono state persone famose, attori di Hollywood, che volevano conoscermi, darmi premi. Tutto finto, scandalistico. Rifuggo dal passato, guardo al futuro: è una semplice questione di sopravvivenza». Appena liberata, le avevano offerto ospitalità sospetta –soprattutto uomini soli – e lavori per lo più da donna delle pulizie, oltre a vestiti usati e carità pelosa. Non ha accettato, è andata quasi subito in televisione per gestire da sola lo sconquasso, pensando che dare alla svelta esaurienti risposte avrebbe evitato altre domande. E il libro è un modo ulteriore per tacitare il brusio, anche se c’è un’insanabile contraddizione di fondo: come si può sperare di fare silenzio parlando? «Con questo libro ho cercato di chiudere il capitolo più lungo e cupo della mia vita. Adesso sono libera». Ha anche motivazioni razionali: «Pensavo che la mia storia avrebbe potuto interessare molte persone, che la lettura gli avrebbe potuto infondere coraggio; indurre gli adolescenti a proteggersi; e le donne – le molte donne vittime di violenze domestiche – a prendere coscienza e liberarsi degli aguzzini». «L’HO PERDONATO» Chissà. Certamente quello che con grande dignità scrive del suo rapitore è difficile da digerire, per chi non è mai stato fissato a lungo dal Male. Natascha Kampusch si è legata in qualche modo a Wolf¬gang Priklopil per sopravvivere: lui è stato l’unico – l’unico – essere umano della sua vita per 3096 giorni. «Considerandolo come una persona con un lato molto oscuro sono riuscita io stessa a restare un essere umano. La gente ha bisogno di mostri alieni per sentirsi migliore e ignorare i tanti mostri domestici. Io credo invece che tutti serbino lati oscuri e che le situazioni siano spesso grigie. Ognuno in teoria potrebbe essere capace di compiere malvagità, e il fatto che ci sia una vittima in carne e ossa – io per esempio – fa capire la tremenda potenzialità dell’animo umano: la cosa risulta sgradita. Le persone si compiacciono solo con un carnefice assoluto e una vittima abbandonata a se stessa e indifesa. Non posso essere io: non mi sono piegata, ora guardo avanti. E ho perdonato il mio rapitore: diversamente la sofferenza non sarebbe mai passata. Non vado sulla sua tomba, ma ne ho portato il lutto».