Sara Faillaci, Vanity Fair n.18 4/5/2011, 4 maggio 2011
INTERVISTA A ENRICO MENTANA
30 APRILE - L’ATTESA
Questa storia di copertina doveva essere l’intervista che state per leggere. Ma ieri pomeriggio, venerdì 29 aprile, mentre stavamo per mandarla in stampa, è arrivata la notizia che Lamberto Sposini era stato ricoverato in gravissime condizioni per una devastante emorragia cerebrale, pochi minuti prima di iniziare la quotidiana conduzione della Vita in diretta su Raidue. Lamberto Sposini, oltre che cofondatore e vicedirettore di Enrico Mentana al Tg5, è un suo caro amico. Mandiamo in stampa queste pagine all’indomani, con Mentana che fino a notte è rimasto al Policlinico Gemelli, giusto un’interruzione per andare in redazione a condurre il Tg serale che ha dedicato proprio a Sposini. Come ha deciso di dedicargli la sua rubrica su Vanity Fair, «perché i problemi di un amico così caro non si possono mescolare ai racconti sui Tg e la politica».
27 APRILE - L’INTERVISTA
Due anni fa, la chiusura definitiva del rapporto con Mediaset, dove era stato reintegrato dal giudice nel suo posto di lavoro perché il licenziamento – innescato la sera del 9 febbraio 2009 da un conflitto sul trattamento giornalistico della morte di Eluana, morte che in questi giorni ancora divide – era stato ritenuto illegittimo. Poi, una lunga disoccupazione. Nel luglio scorso, il ritorno alla direzione di un telegiornale, quello di La7. Il 30 agosto il debutto in video nell’edizione serale, seguito da cento giorni di conduzione non stop. Risultato: ascolti mai realizzati in prime time da un’emittente che in parte del territorio nazionale non è nemmeno visibile. Media settimanale di share ormai vicina al 9,50%, oltre il 10% nei giorni feriali, con ricorrenti record storici – il 10,76% registrato pochi giorni fa (con picco del 12,15% alle 20.15) è solo il più recente – e valori oltre il 25% tra il pubblico laureato.
Piccolo dettaglio: nello stesso periodo, l’anno scorso, la media di share del Tg La7 era del 2,47%.
Mentana, come ha fatto?
«Sono arrivato nel momento giusto. La gran parte del pubblico riteneva ormai che alle otto di sera, ora canonica del Tg, i notiziari fossero troppo simili tra loro e troppo indulgenti nei confronti del premier».
Quindi?
«Ho proposto un Tg direttamente in competizione con Tg1 e Tg5: doveva dare le notizie che gli altri non davano, essere percepito come libero. Avremmo abbandonato le “soft news”, i servizi leggeri e di costume, e puntato sulle “hard news”, la politica. La svolta c’è stata con il giallo di Avetrana: gli altri sono andati tutti in quella direzione, noi abbiamo deciso di staccarci, di occuparci di Pdl e Pd».
Ma senza essere noiosi: come ci riesce?
«Mi concentro sulla conduzione per realizzare un prodotto da cantastorie. C’è un prologo – a volte un editoriale, a volte un’anticipazione di uno dei servizi – che serve a far arrivare la gente, visto che La7 non ha un pubblico consolidato già lì ad aspettarci. Poi accompagno il telespettatore attraverso i principali fatti della giornata cercando di spiegarli in maniera chiara, equilibrata».
Il fatto che abbia quasi quadruplicato gli ascolti significa che gli italiani sono più interessati alla politica di quanto si pensi?
«Significa che ci sono più pubblici. C’è ancora chi segue Avetrana, ma c’è una fetta, neanche marginale, che vuole altro. Chi mi ferma per strada dice sempre la stessa frase: “Grazie, perché mi ha restituito il gusto di vedere un vero telegiornale”. C’era spazio per rifare un Tg come era vent’anni fa, prima che a cambiarlo arrivasse un vento a cui io, con la nascita del Tg5, ho fortemente contribuito».
Proprio lei, che 19 anni fa puntò sulla cronaca e le soft news, oggi fa marcia indietro.
«Alla fine della Prima Repubblica i Tg erano tutti fatti di politica, quasi organi di partito: Tg1 democristiano, Tg2 socialista, Tg3 post comunista. Un notiziario che volesse guadagnare pubblico doveva puntare sui fatti straordinari che accadono alle persone normali con cui è possibile identificarsi. Oggi invece c’è la percezione che i Tg parlino d’altro per non parlare di politica: ovvio che bisogna puntare su quella».
Ha rivoluzionato anche la redazione?
«Quando sono arrivato i giornalisti avevano i contratti di solidarietà, lavoravano solo quattro giorni a settimana: ovviamente non ho potuto assumere nessuno. La mia rivoluzione è consistita nel dislocare le persone: era una redazione romanocentrica, dieci li ho mandati a Milano, altri nelle grandi città italiane».
Che budget ha?
«Forse un quarto di quello del Tg5. Ma più che i soldi fanno le idee».
Anche il suo stipendio si è molto ridimensionato rispetto ai tempi del Tg5.
«Quando stai fermo a lungo e ti arriva un’opportunità come questa, lavori anche gratis. Dall’editore, Telecom, ho accettato uno stipendio che è alto, per carità – 320 mila euro lordi –, ma che è un quinto di quello che prendevo a Mediaset dopo tanti anni di lavoro. Però ho chiesto a La7 un premio di risultato per ogni punto di share di crescita. Quindi probabilmente guadagnerò parecchio».
I punti di crescita ormai sono quasi sette: quanto si avvicinerà al suo vecchio stipendio?
«Ci arriverò molto vicino».
Che cosa fa dei soldi che guadagna?
«Non ho case di proprietà, vivo in affitto, non faccio molte vacanze, non compro automobili, non ho nemmeno la patente. Li metto da parte per i miei figli, ne ho quattro».
Da tre donne diverse.
«Moglie però ne ho avuto una sola: Michela (Rocco di Torrepadula, ex Miss Italia, ndr)».
Perché non ha sposato le altre?
«Non è capitato. Non sono un cattolico praticante».
E perché non ha preso la patente?
«Perché non mi piaceva guidare. E le assicuro che non mi è mai capitato di pensare: mannaggia, se avessi avuto la patente».
Di solito le ragazze si passano a prendere.
«Invece io mi facevo portare fuori da loro. Ribaltavo già da subito la situazione, e anche i sedili».
Squilla il telefono della redazione. «Sì, eccomi». Scosta la cornetta: «C’è il collegamento di cento secondi per Radio Dimensione Suono». Ne fa cinque al giorno. Commenta il fatto politico della giornata come se leggesse un testo, invece sta guardando me. Al centesimo secondo mette giù.
Suo padre faceva il giornalista sportivo: l’ha ereditata da lui la passione per il mestiere?
«Come quella per il calcio (Mentana è un tifoso interista, ndr). Il suo mi sembrava il mestiere più bello del mondo: lo pagavano per andare a vedere le partite».
Eppure ha rifiutato la direzione della Gazzetta dello Sport.
«Quello era il giornale di mio papà. E poi, ho fatto un altro percorso. Anche se nella mia carriera mi hanno offerto anche direzioni di quotidiani – La Stampa e l’Unità, tra gli altri – il mio mestiere è la televisione».
Mi dica allora che cosa pensa dei suoi concorrenti. Il Tg5 di Mimun?
«Clemente sa come si fa un telegiornale, e il Tg5 all’inizio l’abbiamo fatto insieme, con lui, Sposini e Carelli. Certo, non è più come allora, il Berlusconi governativo ora a Mediaset si fa sentire. E questo obiettivamente ci ha avvantaggiati».
Il Tg1 di Minzolini?
«Orgogliosamente filogovernativo, diverso da quelli di Rossella e Mimun, allineati ma non di battaglia. È una rivoluzione perché, prima di lui, il Tg1 cambiava solo per un 20% a seconda del partito che saliva al governo. E la sta pagando: i telespettatori antiberlusconiani vanno a cercare altro».
Ha senso parlare di giornalismo quando si è smaccatamente a favore di una parte politica?
«Il maggioritario ha cambiato l’Italia. Gli aberlusconiani, quelli che non sono né pro né contro l’attuale premier, sono una minoranza. Oggi hanno successo i giornali schierati: La Repubblica, Libero, il Giornale. Santoro non è equidistante né vuole esserlo. Minzolini salta più all’occhio solo perché ha reso di parte il Tg1 che, storicamente, era stato tenuto al riparo da questa logica».
Andrebbe mai a dirigere il Tg1?
«Me l’hanno offerto due volte, in passato, e ho rifiutato».
Perché ha detto no?
«Perché ci ho lavorato nove anni, so come funziona. In Rai tornerei solo se mi venisse garantita la libertà di non rispondere al telefono ai politici. Una cosa che non concederanno mai. Io sono l’unico direttore di Tg che non vota».
Rivendica libertà e autonomia, ma nel 1980 fu assunto nella Rai lottizzata in quota ai socialisti.
«Non me ne vergogno. Allora si entrava solo così. Ma la lottizzazione mi ha permesso anche di uscire dalla Rai: fui fatto fuori da vicedirettore del Tg2 perché poco allineato. Chi fa Tv non può dire “sono libero” se non ha basi solide: la reputazione, l’autorevolezza le acquisisci sul campo».
Da ragazzo era appassionato di politica?
«Certo. Sono entrato al ginnasio nel ’68, erano gli anni in cui per un’ideologia si arrivava a picchiare, e anche peggio. Come fai a spiegare alle nuove generazioni che due dei tre coordinatori del Pdl sono Bondi, che era comunista, e La Russa, che era fascista?».
Me lo dica lei, che fa un Tg di politica.
«La politica oggi è raccontata da piccoli fatti che non c’entrano con la passione. Per questo tante storie private, di sesso e tradimenti, prendono piede: un tempo non è che fossero più casti, ma avevano più argomenti. Oggi la politica è solo l’arte del prevalere».
Come vive la fine della sua passione politica?
«Da appassionato spassionato. Come è successo a quasi tutti quelli della mia generazione: quando cerchi di conoscere il mondo per cambiarlo e poi ti accorgi che non lo cambi, metti questa passione al servizio di un’altra causa, il giornalismo».
Infatti ai vertici dei media ci sono parecchi ex militanti. Soprattutto di sinistra, anche se oggi magari lavorano per Berlusconi.
«C’è chi, come Liguori, concepisce il giornalismo come prolungamento della politica. Capisco il prendere posizione per le buone cause, ma il giornalismo che piace a me è diverso. La sparo grossa: tra Priebke che mangia al ristorante quando dovrebbe essere agli arresti domiciliari e gli ebrei che protestano, preferisco pensare che non debbano avere per forza ragione gli ebrei».
Ha diretto per 13 anni il Tg dell’ammiraglia di Mediaset: difficile credere che non abbia avuto condizionamenti.
«Nessuno mi ha mai detto che cosa dovevo o non dovevo fare. La mia libertà si cibava del successo. Magari la telefonata c’era: “Guarda che questa cosa dà fastidio”. Ma, se era una notizia, la davo lo stesso. Quando a Berlusconi ha fatto comodo avere un Tg che facesse più i suoi interessi politici, mi ha sostituito».
A proposito di libertà. Proprio a Vanity Fair, che la intervistava due anni fa dopo l’addio a Mediaset, lei rivelò il contenuto di una email scritta a Fedele Confalonieri all’alba del 22 aprile 2008. Era reduce da una cena con i vertici aziendali dell’informazione in cui, invece di parlare di giornalismo, ci si complimentava per la recente vittoria elettorale di Berlusconi. Nella email al presidente di Mediaset esprimeva il suo disagio, chiedeva aiuto per uscire da un’azienda che non riconosceva più. «Il brivido di partecipare a un’impresa giornalistica», scriveva riferendosi a uno dei partecipanti alla cena, «è un’emozione che un XXX non conoscerà mai». Nella versione pubblicata della lettera, e nell’intervista, si rifiutò di dire chi si nascondeva dietro quelle X. Oggi può farlo?
«Nel frattempo è stato promosso: è uno dei direttori dei Tg Mediaset».
Mimun è al Tg5 da 5 anni, Fede al Tg4 da sempre: resta solo Giovanni Toti, di Studio Aperto.
«Un po’ l’ho rivalutato. Ha senso dell’umorismo: quando sono arrivato qui a La7 mi ha mandato un sms dal quale si capiva che si era riconosciuto nella descrizione».
La sostituzione alla guida del Tg5, a fine 2004, seguita cinque anni dopo dalla rottura con Mediaset sul caso Englaro, hanno dato invece a lei la fama di uno dei pochi giornalisti indipendenti.
«Ma io non ho fatto nulla per alimentare questa sindrome da conte di Montecristo: non ci sono ruggini o velleità vendicative. Se Berlusconi fa una cosa giusta lo diciamo, se fa una cazzata anche. Statisticamente, succede di più la seconda».
Che cosa pensa di lui?
«Ha monopolizzato la politica italiana negli ultimi vent’anni, anche a causa della debolezza dei suoi avversari. A volte irrita, a volte diverte. Ma è difficile giudicarlo da quando, in questa guerra tra bande, ogni fatto della sua vita privata – che tale dovrebbe rimanere – viene usato in chiave politica. Quasi nessuno si chiede seriamente se abbia governato bene o male».
Non crede che un premier dovrebbe avere uno stile di vita più sobrio?
«Quello che fa in privato non mi interessa. Diverso, certo, sarebbe se si dimostrasse che ha avuto rapporti sessuali con una minorenne. Da anni si parla delle questioni di pelo di Berlusconi. Ma la sostanza è un’altra: la sua era è finita? Se si votasse domani, siamo sicuri che perderebbe?».
Diceva che non ci sono ruggini con Berlusconi, ma nella nuova edizione del suo libro Passionaccia spiega che è rimasto disoccupato così a lungo per un veto di Berlusconi.
«Confermo. La7, nella persona del numero uno di Telecom Franco Bernabè, mi aveva cercato pochi giorni dopo la rottura con Mediaset, nel febbraio 2009. La cosa fu bloccata».
Da chi?
«Da chi detiene il potere. L’editore di La7 è Telecom, dentro ci sono Generali, Mediobanca e altri soci pesanti. Di certo la politica non ha caldeggiato la mia nomina: una persona che ha appena litigato con Mediaset non è consigliabile».
Perché Berlusconi l’avrebbe costretta a questo esilio forzato?
«La ritengo una blanda censura di mercato. Voleva evitare che si facesse un Tg di successo, che togliesse telespettatori e pubblicità, e dirmi: “Guarda che non è che fai quel che vuoi”. Farmela un po’ pagare, insomma. Ci sta».
Se anche l’editore di La7 in qualche modo dipende dalla politica, la sua indipendenza come può essere garantita?
«Non avrei mai accettato di fare un telegiornale con dei limiti. Anche perché, se il pubblico di Mediaset era forse più indulgente, quello di La7 non ti farebbe mai passare l’omissione di una notizia».
Sempre in Passionaccia racconta che, alla vigilia del suo approdo a La7, Berlusconi a sorpresa le offrì di rientrare in Mediaset. Che cosa successe?
«Me lo trovai di fronte per caso alla festa del 2 giugno al Quirinale. Mi disse: “So che sta per firmare con La7. Io preferirei che tornasse a Mediaset. Non ho avuto nulla a che fare con il suo allontanamento e credo sarebbe giusto chiudere quella ferita. La chiamerà mio figlio”. Puntuale, la telefonata di Piersilvio arrivò il giorno dopo. Quando lo incontrai a Cologno era emozionato perché l’indomani sarebbe nato suo figlio. In quel clima festoso fu più facile dirgli di no quando mi offrì tutto quello che c’era da offrire».
Che cosa?
«Non importa. Già sei mesi prima Confalonieri mi aveva proposto di tornare, ma non mi garantiva l’autonomia che chiedevo».
Mettiamola così: se Piersilvio le avesse proposto il Tg5, avrebbe accettato?
«La storia non va mai all’indietro. Era giusto che facessi una cosa diversa in un posto diverso».
I giornali hanno riportato un recente incontro tra lei e il Cavaliere con classica battuta alla Mentana. Mi racconta come è andata?
«Stavo passeggiando in centro a Roma con i miei figli e l’ho incontrato per caso. Davanti alla mia secondogenita (Alice, 18 anni, arrivata dopo Stefano, 23, ndr) gli ho detto: “Le presento mia figlia, che è maggiorenne”. In tanti si sono complimentati per la battuta, ma io non sono orgoglioso di averla fatta: doveva essere una cosa goliardica tra noi, non sapevo ci fossero vicino giornalisti che poi l’avrebbero pubblicata».
Sono le 19 e 55. Mancano solo cinque minuti al Tg e siamo ancora nella sua stanza negli uffici romani di La7, a meno di cento metri dalla Rai di via Teulada, quartiere Prati. Mentana scende al terzo piano dove c’è lo studio con tutta calma, mi fa sedere a fianco della telecamera. Dopo il lancio di ogni servizio, quando non è inquadrato, si alza e fa mezzo giro dello studio, con le mani incrociate dietro la schiena. Passa davanti a me e chiede: «Si sta addormentando?». Finito il Tg, risaliamo in redazione.
Pensa di crescere ancora negli ascolti?
«In un teatro non può entrare un numero di spettatori doppio rispetto alla capienza. La7 è una rete che fisiologicamente non potrà mai arrivare al 20%, non è strutturata. Pensi che, prima del nostro Tg, G Day di Geppi Cucciari arriva, se va bene, al 2%: i preserali di Raiuno e Canale 5 fanno il 20».
C’è anche il limite che La7 non si vede ovunque.
«Ho sempre pensato che questa storia fosse un alibi per i bassi ascolti. La gran parte della gente ci vede senza problemi».
Le piace andare in video?
«So di saperlo fare, quindi certo che mi piace. Ma non sono videodipendente, altrimenti non avrei potuto fare quella scorpacciata di conduzione: per farcela, non devi avere ansia».
Cento giorni di fila, senza saltare nemmeno un weekend. Sua moglie come l’ha presa?
«Se ti piace fare una cosa devi farla, tutto il resto si aggiusta. Per me lavorare non è mai stato un sacrificio».
Non sarà stato facile stare un anno e mezzo fermo.
«Però mi sono goduto i figli piccoli nella fase più bella (Giulio oggi ha 4 anni e mezzo,Vittoria 3 anni e mezzo, ndr)».
Oggi trova il tempo per stare con loro?
«All’asilo spesso li porto io. E poi la tecnologia ti permette di stare sempre in contatto con la redazione».
Quanto è tecnologico Mentana?
«Ho l’iPad ma non lo uso. Meglio il computer portatile dove leggo i quotidiani alle 6.30 del mattino, le agenzie, le email».
Crede che il futuro del giornalismo sia online?
«No. Il ruolo principale di informazione ce l’avranno ancora a lungo i telegiornali. Non c’è nulla di così semplice come guardare in mezz’ora quello che è successo con un mediatore di cui ti fidi. Su Internet trovi le notizie che cerchi, non quelle che non ti aspetti».
Si riguarda mai?
«Mai in questo Tg. In chi fa questo mestiere c’è una componente di vanità, di narcisismo, di autostima e anche di autoindulgenza. Io eccedo in autoindulgenza: non mi riguardo perché sono sicuro di me».