Francesco Cevasco, Sette n.18 5/5/2011, 5 maggio 2011
AMICO EINSTEIN
Il dottor Pietro Manes, economista non accademico, non parla, non vuole parlare, ma per fortuna scrive. E così, dalle carte de Il Ponte, la prestigiosa rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei, riaffiora quel suo incontro con Albert Einstein di sessant’anni fa. «A quel tempo ero a Princeton», annota Manes, «come visiting scolar con una Borsa di studio Rockefeller, e stavo terminando un saggio teorico, molto ambizioso, sulla dinamica economica. Partendo dall’uomo della giungla, il primo capitolo del saggio era intitolato “La vita e la condizione di possibilità della vita”».
Ma che cosa c’entrava Einstein? C’entrava eccome: perché il giovane economista intendeva la vita come moto perpetuo (se non quella individuale, quella delle collettività che si susseguono nel tempo e nello spazio). L’analisi economica applicata alla “vita perpetua” era impostata sulla quantità di energia destinata a mantenere, appunto, la vita. Insomma, poteva sembrare che alcune teorie di Einstein potessero in qualche modo applicarsi o spiegare o sfiorare le teorie del giovane Manes. Così il visiting scolar, dopo che alcuni professori di economia avevano letto senza dargli soddisfazione i primi capitoli del suo lavoro, spudoratamente li manda in lettura al Grande Vecchio che vive a Princeton.
LO SCIENZIATO E IL GIOVANOTTO
Correva l’anno 1951 e il settantaduenne scienziato non soltanto risponde al giovanotto ambizioso e spudorato, ma lo invita a casa sua. Manes è stupito e felice quando nella sua cassetta postale di 244 Nassau Street riceve il testo firmato “Sincerely yours, Albert Einstein”. Non si preoccupa troppo quando legge che lo scienziato nutre qualche perplessità sul concetto base della sua teoria e invece si esalta quando arriva il finale: “Gradirei discuterne con lei in uno dei prossimi pomeriggi”. Prima di queste parole si legge: “Caro Signor Manes, ho letto il suo manoscritto. Ovviamente io non sono un economista e perciò non sono in grado di giudicare l’originalità del suo lavoro. Comunque, sono rimasto piuttosto colpito dalla chiarezza della sua esposizione. Non sono però convinto delle sue argomentazioni a favore del valore basilare del concetto di energia fisica. De facto mi sembra che questo concetto possa facilmente essere eliminato e sostituito dai suoi concetti di base tendenti a evitare il dolore e a ricercare il piacere. La sua teoria del lavoro inoltre non mi ha convinto”.
E Manes non perde tempo: prende subito contatto con la segretaria, Miss Dukas, che lavora per Einstein da venticinque anni, e fissa l’appuntamento. Nei suoi appunti ricostruisce così la procedura stabilita dalla potente segretaria: «Sarei stato ricevuto con qualche anticipo sull’orario stabilito, dalla stessa Miss Dukas, che poi mi avrebbe introdotto nello studio e presentato a Einstein. La visita sarebbe durata almeno venti minuti, e la fine della visita sarebbe stata segnalata dall’ingresso nello studio della stessa Miss Dukas. Nel giorno stabilito mi presentai puntualmente e fui introdotto nello studio, alla presenza di Einstein, seduto dietro una grande scrivania. Mi presentai, mi strinse la mano e mi fece sedere di fronte».
CHIACCHIERE E SUCCHI DI FRUTTA
Una ricostruzione del dialogo venne riportata nel maggio 1955 sul quotidiano Il Tempo, un mese dopo la morte di Einstein, da Leonardo Sinisgalli, lo scrittore e poeta che allora dirigeva la rivista Civiltà delle Macchine. Sinisgalli sapeva (quasi) tutto dell’incontro perché Manes gli aveva mandato una letterina con la cronaca della visita. Il giovane economista aveva saputo quale fosse stato il più grande rammarico per lo scrittore al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti. Annotava Sinisgalli: “Tra gli ‘scacchi’ del mio viaggio in America quello che oggi mi pesa e mi addolora è il mancato incontro con Einstein. Abitava lì a due passi… Gli amici americani mi avevano scoraggiato: ha il timore delle persone sconosciute, non vuol perdere tempo, non ha piacere di rinunciare a certe abitudini. Al suo passaggio sotto il viale fiancheggiante di olmi, i bottegai di Mercer Street mettono l’orologio all’una, come quando passava Kant sul ponte di Konigsberg”. E così Manes, saputa la delusione per il mancato incontro, aveva voluto consolare Sinisgalli raccontandogli il suo dialogo con Einstein: «Parlammo un po’ del mio lavoro, egli non condivideva alcune delle mie idee. Poi la conversazione scivolò su un campo più generale, politico, sociale e anche un po’ filosofico. Io lo seguivo intervenendo saltuariamente quando si trattava di politica e società, però era lui a parlare e parlava volentieri: sentiva, credo, che lo seguivo e c’era comunicazione. Dopo poco meno di mezz’ora, Miss Dukas puntualmente entrò: allora scopersi la parte segreta dell’etichetta e, riflettendoci dopo, è una delle cose più belle che mi siano capitate. Io feci per alzarmi, ma Einstein chiese che ci portasse qualcosa da bere. Miss Dukas portò un misto di succhi di frutta e continuammo a parlare, soprattutto lui. Che cosa dicesse non ha importanza».
SIMPATIA PER GLI ITALIANI
In realtà Einstein volle parlare, a lungo, degli orrori della guerra da poco finita e della guerra in generale spiegando il suo essere pacifista. Difese l’idealità del comunismo e i valori positivi del popolo russo. Riconobbe alcuni meriti, soprattutto i benefici economici, del capitalismo. Il tutto espresso con l’irruenza, la passione e la sincerità tipica dei bambini. Tanto che Manes annota, tra l’altro, nelle pagine scritte per Il Ponte: “Stavo leggendo in quel periodo alcuni scritti di Confucio e mi tornava in mente una frase che mi aveva colpito: “il grande uomo conserva intatto il suo cuore di fanciullo”. Dalle prime parole di Einstein fino all’ultimo, durante il colloquio, questa frase continuò a martellarmi internamente, come se fosse l’accompagnamento al discorso. Dopo poco più di mezz’ora, tutto insieme un’ora e cinque o un’ora e dieci minuti, Miss Dukas ritornò e questa volta stette lì con noi. Einstein continuava a parlare ma lei si mise a gironzolare per lo studio, a riordinare qualche oggetto, a guardare un quadro sulla parete. Io ero a disagio perché capivo che dovevo andarmene ma non potevo alzarmi nel mezzo di una frase. Alla prima pausa mi alzai tuttavia, e il vegliardo si alzò anche lui e mi accompagnò fino alla porta di strada, sempre parlando. E per ultimo, stringendomi la mano, mi disse, quasi come saluto, che gli italiani erano il suo popolo preferito”.