Antonio D’Orrico, Sette n.18 5/5/2011, 5 maggio 2011
CANNES, PAROLA DI SORRENTINO
Dunque, c’è Paolo Sorrentino (regista – e scrittore – amatissimo) in concorso al Festival di Cannes (dove ha già vinto il premio della giuria, presidente Sean Penn, nel 2008 per Il divo) con This must be the place (protagonista lo stesso Penn, che si innamorò del regista proprio quella volta sulla Croisette) e allora cosa c’è di meglio che fargli un’intervistona? Ma Sorrentino mi gela subito, pur se con il suo consueto garbo. «Mi dispiace, ma sono sotto embargo. Non posso parlare fino all’autunno quando il film uscirà nei cinema». Niente intervistona allora? Macché. Come sanno solo i veri esperti di interviste, i capolavori del genere si fanno meglio senza l’intervistato. Conoscendo la storia di Sorrentino quasi a memoria procederò comunque. E comincerò dall’inizio.
«Sono figlio di genitori molto grandi, mi hanno avuto tardi. Sono nato 14 anni dopo mia sorella e 9 dopo mio fratello quindi sono cresciuto come un figlio unico. Quando mio fratello e mia sorella avevano già una vita propria, io stavo ancora con i genitori, con i loro amici, gente di cinquant’anni e passa. Io credo che una persona si formi durante l’infanzia e una piccola parte dell’adolescenza. Dopo è tutto un rimasticare roba che hai vissuto allora. Il mio bacino di osservazione, nel periodo in cui mi formavo, non erano tanto i miei coetanei ma i coetanei dei miei genitori. Per questo, penso, sono sempre stato inattuale e sono rimasto sempre affascinato dagli uomini di mezz’età. Adesso che sono diventato grande anche io, mi pare che quello dei miei genitori e dei loro amici fosse un essere grande più bello dell’essere grande di ora. Mio padre era direttore di banca, mia madre era una casalinga. Abitavamo al Vomero, come tutti i napoletani che hanno fatto due lire, ma venivamo dal centro storico. Mi ricordo che mio padre aveva un amico che veniva a casa il lunedì sera, con la scusa di guardare la televisione. Mio padre era comunista, il suo amico fascista. La tv non la guardavano proprio. Si mettevano a discutere, litigate mostruose. Parlavano di politica facendo molti esempi pratici. Era molto commovente, ai miei occhi di bambino, vedere due persone adulte così emotivamente partecipi. Il sabato sera, i miei invitavano gente a casa, mettevano un disco di Califano o Sinatra e ballavano i lenti. Io li guardavo incantato. Ho fatto il mio primo film, L’uomo in più, storia di un cantante confidenziale, perché mio padre ascoltava Califano. Tony Pisapia, il cantante del film, lo interpretava Toni Servillo e ricordo ancora il mio stupore quando facemmo la prima prova. Servillo fu impressionante, lesse le battute e un secondo dopo era già Tony Pisapia. Sono rimasto così colpito da quella trasformazione, da quella reincarnazione, che di quel personaggio non mi sono liberato e ho dovuto dargli poi sfogo facendone il protagonista (cambiandogli il nome: da Tony Pisapia a Tony Pagoda) del mio romanzo Hanno tutti ragione».
IL TAGLIO DELLE BASETTE
A 16 anni Sorrentino suonicchia la batteria, sognicchia di fare la rockstar. È l’epoca in cui adotta le basette lunghissime che ormai sono un suo segno particolare da carta d’identità. «Non mi ricordo più perché le ho fatte crescere. Attraversi quell’età in cui fai tentativi: baffi, barba, ciuffo. Le basette mi piacquero e non me le sono più tolte. Tanto che quando andai a fare una parte nel Caimano e Nanni Moretti premise: “Però ti devi levare le basette”, gli risposi: “Nanni, non avendo nessuna velleità di fare l’attore, ti dico subito che non vengo se mi devo tagliare le basette”. Trovammo un compromesso, le tagliai ma di pochissimo. Secondo me, con le basette sto meglio. E sto benissimo in smoking. Sì, in smoking faccio proprio la mia figura. Mi piace moltissimo lo smoking. È l’unico abito che mi fa sembrare magro. Purtroppo non è che lo puoi mettere ogni giorno».
A 17 anni scoppia il suo grande amore letterario. Sorrentino perde la testa per Viaggio al termine della notte di Céline, lo scrittore più maledetto (e benedetto) che c’è stato. «Céline è la mia Bibbia, lo scrittore che mi ha segnato di più». Quasi in concomitanza accade la tragedia più grande della sua vita, la morte contemporanea del padre e della madre. «Si trovavano in una casa in montagna. Un incidente. Una fuga di gas dal riscaldamento difettoso». Di colpo finisce tutto, le serate con i dischi di Sinatra e Califano, i balli cheek to cheek, i sogni di gloria artistica. L’anno dopo si iscrive a Economia e commercio (l’unico regista con studi di questo tipo alle spalle). Nel 1995, a 25 anni, molla l’università e partecipa due volte al premio Solinas per la sceneggiatura. Vince tutt’e due le volte. Gira il primo film.
CAMICIE STIRATE A LONDRA
Per capire chi è Sorrentino bisogna sapere che è un solitario. «Da ragazzo io sono stato isolato da qualsiasi moda per definizione. Ero emarginato e allora mi inventavo un universo parallelo. Non sposavo lo spirito dell’epoca. Poi ho scoperto un proverbio americano che dice: “Chi sposa lo spirito di un’epoca rimane vedovo in quella successiva”. Quale fosse lo spirito dell’epoca mia non si sapeva. Per quanto mi riguarda, sono un napoletano che ama la Svizzera. A me piaceva la Napoli dove si mandavano a stirare le camicie a Londra. Ripeto, sono inattuale».
Un solitario curioso della solitudine degli altri. «Sono sempre stato attratto da uomini solitari che tramano, dal mistero delle loro sigarette, dei cocktail trangugiati ai bar di alberghi ovattati». Ma anche attratto dalla mondanità. «Quando mi documentavo per Il divo andai a parlare con Cirino Pomicino, che era stato uno dei politici più vicini ad Andreotti. A un certo punto mi disse: “Guardi che se vuole capire chi è Andreotti deve capire che è innanzitutto un mondano”. Una battuta formidabile. Una gemma, una pepita d’oro per capire Andreotti e forse tutta la Dc e forse tutta l’Italia dell’epoca. Per me fu l’indicazione di regia fondamentale. A me piace la mondanità. Non ne faccio parte, un po’ perché la schivo, un po’ perché sto a Roma da pochi anni, ma mi interessa come fenomeno visivo. La mondanità è foriera di immagini e il cinema dovrebbe essere solo quello, un racconto per immagini. Io penso per immagini. L’unico talento di un regista dovrebbe essere quello di avere immagini in testa».
Dopo Il divo (film per il quale ipotecò la casa per trovare i soldi necessari a girarlo), Sorrentino pensò a un film sulla mondanità ispirandosi a Cafonal, la rubrica di Dagospia da cui poi sono nati due libroni. «Cafonal è la dolce vita oggi degenerata al massimo. All’inizio, per snobberia, il librone di D’Agostino e Pizzi non volevo leggerlo, ma poi l’attrazione è stata fortissima. A sfogliare la sequenza mostruosa delle foto di Pizzi ho provato la vertigine della vacuità assoluta. La scena madre delle foto di Pizzi è quella del buffet, una tentazione irresistibile. Un paio di volte sono andato a quel tipo di party per pseudo-documentarmi. Poi però mi sono fermato. Era molto difficile trovare una chiave cinematografica. Mi sono posto pure delle domande che di solito non mi pongo mai (però forse invecchiando...), domande morali. Perché se dedichi un film a quel mondo anche se lo attacchi ne fai comunque una esaltazione. Perciò sul progetto Cafonal mi sono arenato. Mi chiedevo: “Che faccio? Perdo due anni della mia vita per crocifiggere questi qua e dire quanto sono delle merde”. Con questi presupposti un film viene male. Un film viene bene quando hai una sorta di innamoramento per ciò che racconti».
UN’ECCENTRICA GIACCA BIANCA
Quando dici Sorrentino dici (associazione automatica) Servillo. È la nuova coppia del cinema italiano così come in passato c’erano le coppie Fellini-Mastroianni o Risi-Gassman. «No, non è proprio come Fellini e Mastroianni. Mi sembra un accostamento irriverente. E poi il rapporto è diverso. Fellini avrebbe voluto essere Mastroianni, bello come Mastroianni. Era una sua proiezione. Invece per me Toni è il fratello maggiore che mi piacerebbe avere (dicendo questo non mi lamento assolutamente del fratello maggiore che ho o di mia sorella). Lui mi ha aiutato molto, i primi film ero nervoso, tendevo a drammatizzare. Toni è diverso dagli altri attori. Lui ti arriva sul set con in tasca il ritaglio di giornale dove Giorgio Manganelli parlava dell’“atteggiamento vedovile” di Andreotti e degli altri democristiani. Lui è come se avesse fatto il regista di cinema anche se non lo ha mai fatto. Ma la ragione primaria del mio innamoramento nei suoi confronti sta nel fatto che mi fa molto ridere. Una volta a Cannes ci vedemmo alle sette di mattina per un’intervista. Io mi ero messo una giacca bianca e lui, siccome era una giornata che dovevamo farci fotografare, cominciò: “Ma sei sicuro che ti vuoi mettere questa giacca bianca? Guarda che spara. E poi, scusa, ma in questa giacca bianca vedo segni di eccentricità…”. Mi tirò scemo per tutta la mattinata. Ma è anche capace di parlare di Mozart per ore e allora non ridi. Non ci frequentiamo molto. Ci sentiamo sporadicamente, qualche telefonata. Sean Penn dice delle cose esaltanti su Toni. Ne è stato colpito in maniera profonda».
IL MONOLOGO DI STROMBOLI
This must be the place è un appuntamento fondamentale per Paolo Sorrentino e non solo perché è il suo primo film americano con una star hollywoodiana. C’è molto altro. È un appuntamento esistenziale. In che senso? Nel senso di questo monologo che Sorrentino mi fece di getto una sera a Stromboli, quando era ancora in attesa del sì definitivo di Sean Penn e mentre il pianista del pianobar La Tartana suonava E la chiamano estate di Bruno Martino (parole di Franco Califano): «Una ex rockstar (Cheyenne, interpretata da Sean Penn) va a trovare il padre in fin di vita ma arriva tardi perché è dall’altra parte del continente e lo trova morto. Allora scopre che il padre era stato in campo di concentramento. Ed era stato umiliato da una guardia del lager. Di quest’offesa, pur se irrisoria rispetto a quello che fecero nei campi di concentramento, il padre aveva fatto una ragione di vita. Cosa vuoi che sia un piccolo episodio di umiliazione rispetto all’Olocausto? Eppure per tutta la vita il padre aveva cercato di vendicarsi e aveva dato la caccia a questo piccolissimo criminale nazista. (È un racconto minimale, tutto ambientato oggi, senza flashback, senza scene del passato). Cheyenne legge i diari del padre che raccontano di come avesse cercato invano questo nazista che stava negli Stati Uniti. La rockstar decide di proseguire l’opera del padre e di cercare l’uomo. Però non ha doti investigative, si muove con la lentezza esasperante tipica di chi è stato dipendente da droghe e alcol. Così cerca per mesi uno che probabilmente è morto visto il tempo trascorso (ormai dovrebbe fare sui 90 anni) e visto il tempo che ci sta mettendo lui a cercarlo. Invece a un certo punto lo trova, ma non dico il finale... La mia rockstar somiglia un po’ a Rob Smith dei Cure, che ancora oggi che ha 50 anni e passa, porta i capelli lunghissimi, si mette il rossetto. Trovo stupende queste rockstar imbolsite. Rob Smith sono andato a vederlo quando è venuto a Roma, ha un look, anche quando non è in scena, che si addice a uno di 15 anni. Uno strano contrasto: un uomo assolutamente maturo con un look adolescenziale. Le vecchie rockstar hanno fermato se stessi e il mondo. Rob Smith si è fermato al 1988, non ha il cellulare, non guida perché non ha avuto bisogno di imparare a farlo in quanto ai tempi d’oro ci pensavano gli altri a portarlo di qui o di là. Con questo film – che racconta un rapporto con molte lacune tra un padre e un figlio, come è stato, forzatamente, il mio con mio padre – mi piacerebbe mettermi in gioco anche autobiograficamente. Per usare una parola brutta, vorrei lanciare una sfida a me stesso. Cercare una regia più essenziale. Finora ho usato molto, nella messinscena, i fuochi d’artificio. Mi piacerebbe fare un passo indietro e dare più spazio all’autenticità dei personaggi. Non che non siano autentici i personaggi che ho fatto finora ma c’era sempre dietro una costruzione letteraria. Mi è capitato di vedere i primissimi filmati dei Lumière quando inventarono il cinema e documentavano la vita del loro rione a Lione. Filmavano le corse al sacco della festa di quartiere come se si trattasse della finale del SuperBowl. Mi ha colpito il coinvolgimento della cittadinanza per una cretinata come la corsa al sacco e la felicità dei partecipanti. Quelle immagini mute mi hanno stregato con la loro semplicità, la gioia, il senso della vita che trasmettevano».
Cheyenne è un cugino americano di Tony Pagoda. Sean Penn si è mostrificato per interpretarlo. Appena hanno cominciato a circolare le prime foto dal set, i fan dell’attore hanno protestato su Internet chiedendosi con raccapriccio chi è quella specie di drag queen che si spaccia per Sean.
Diceva Alfred Hitchcock che i film più belli sono sempre film di inseguimento ed è una regola senza eccezioni. Anche This must be the place è un film di inseguimento, insegue la memoria di un padre.