Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 05/05/2011, 5 maggio 2011
L’AUSTRIA PRIMA VITTIMA STORIA DI UN RATTO POLITICO - A
proposito di neutralità, pur fuori dalle dinamiche legate alle vicende della Seconda guerra mondiale, è interessante ricordare il caso dell’Austria che, pur avendo combattuto fino alla fine di quel conflitto al fianco di Hitler, riuscì a ottenere, dopo solo dieci anni, la completa liberazione del suo territorio dalle truppe di occupazione e il recupero delle proprie sovranità e indipendenza. Tutto, per l’appunto, in nome di un trattato di neutralità, che in realtà era più nominale che sostanziale. Era, allora, il 1955; ma da quell’anno in poi ci sarebbe voluto circa un quarantennio perché la Germania riuscisse ad ottenere un risultato paragonabile.
Giulio Prosperi
giulio. prosperi@email. it
Caro Prosperi, l’Austria ebbe diritto a un trattamento privilegiato perché fu considerata la prima vittima di Hitler. L’argomento può parere assurdo a chi ha visto le cronache cinematografiche dell’ingresso del Führer a Vienna il 14 marzo 1938 «tra il giubilo della popolazione e il suono delle campane» , come scrisse Joachim Fest nella sua biografia di Hitler. E può sembrare ancora più assurdo a chi ricorda che fra i presidenti della Repubblica austriaca, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, vi fu un uomo, Kurt Waldheim, che aveva indossato l’uniforme della Wehrmacht e partecipato ad alcune delle più discusse e controverse operazioni tedesche nei Balcani. Ma è certamente vero che l’Austria aveva avuto sino al 1938 una classe politica democratica e che i suoi due ultimi cancellieri si erano battuti per impedire al piccolo Stato, sorto dal crollo dell’impero asburgico, di venire inghiottito dal Reich tedesco. Il primo, Engelbert Dollfuss, era stato ucciso dalle camicie brune naziste nel palazzo della Cancelleria il 25 luglio 1934. E il suo successore, Kurt von Schuschnigg, fu bruscamente convocato da Hiler nella residenza bavarese di Berghof, accanto a Berchtesgaden, per una conversazione minacciosa e ultimativa. Quando il povero austriaco cercò di creare un clima amichevole con qualche cenno alla splendida vista alpina che si ammirava dalla terrazza del Berghof, Hitler, infastidito, rispose: «Già, è qua che io elaboro le mie idee. Ma noi non ci siamo certo incontrati per parlare di bei panorami e del tempo che farà!» . Quello il che Führer voleva era l’Austria, graziosamente deposta nelle sue mani da un cancelliere umile e conciliante. Era il 12 febbraio 1938. Tornato in patria, Schuschnigg cercò di tergiversare e tentò un’ultima difesa proponendo un referendum che avrebbe chiesto agli austriaci di pronunciarsi sul futuro del loro Paese. Ma la quinta colonna dei nazisti austriaci e il governo di Berlino non gliene dettero il tempo. Poche ore dopo le truppe tedesche attraversarono la frontiera e Hitler fece il suo trionfale ingresso nella capitale. Schuschnigg, dal canto suo, fu arrestato, interrogato brutalmente per parecchi mesi e rinchiuso sino alla fine della guerra nei campi di Dachau e Sachsenhauen. La morte dell’Austria ebbe molti padri. Le due maggiori democrazie, la Francia e la Gran Bretagna, non alzarono un dito. E Mussolini, che negli anni precedenti aveva fatto dell’indipendenza austriaca un caposaldo della sua politica estera, lasciò capire ai tedeschi, sin dal novembre 1937, che non si sarebbe opposto. In una conversazione con il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop, il 7 novembre, disse, secondo Galeazzo Ciano, che era «stanco di fare la sentinella all’indipendenza austriaca, soprattutto se gli austriaci non vogliono più la loro indipendenza» . Ma gli austriaci, come sappiamo, non vennero mai consultati.
Sergio Romano