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 2011  maggio 05 Giovedì calendario

TUTTI I SEGRETI DELL’ULTIMO RIFUGIO. FILO SPINATO, CAPRE E 150 GALLINE —

Curioso che sia finita qui. Nelle stanze spoglie di questo edificio a tre piani con i muri sbrecciati, l’intonaco sporco, il cemento grezzo un po’ ovunque, i tubi rugginosi dei gabinetti che corrono all’esterno, le traversine di ferro visibili sul tetto, come se dovessero continuare a costruire da un momento all’altro. Qualche giornalista locale, sull’emozione delle prime ore dopo il blitz, l’ha definita «una villa di lusso» per la «primula rossa» di Al Qaeda. In verità tutto attorno ci sono abitazioni molto più lussuose, con le pareti dipinte di fresco, scaloni in marmo, infissi d’acciaio e giardini curati. Anche i reporter della tv pachistana che hanno avuto breve accesso all’interno parlano di stanze semplici, poco mobilio di scarsa qualità, tappetucci da quattro soldi. Le tracce del combattimento sono evidenti: chiazze di sangue sui pavimenti, letti e armadi distrutti, vestiti sparsi, boccette di medicinali rovesciate nel frigo spalancato. A guardare il luogo dove è stato ucciso Osama Bin Laden, da 10 anni il ricercato più famoso del mondo, torna quello strano senso di stupore che colse al momento della cattura di Saddam nell’angusto covo sotterraneo alla periferia di Tikrit. Ci si aspettava di trovare un leone pronto a morire combattendo con i figli e scoprimmo un clochard solitario dai capelli arruffati, la barba lunga e i denti guasti. Anche con Bin Laden la rappresentazione è molto diversa dalla realtà. Quasi nulle le tracce di combattimento all’esterno della casa. Le coltivazioni di patate, insalata e cavolfiori, interrotte da rigagnoli di fognature a cielo aperto, dominano la campagna. Sin dalla sua mitica fuga con un manipolo di fedelissimi dalle trincee di Tora Bora nel novembre 2001, attraverso le cime innevate di Sphringhar sino al villaggetto pachistano di Parachinar, la narrativa mediatica ce lo presentava come un fiero latitante. Malato ai reni, invecchiato precocemente da bivacchi e marce forzate, eppure sempre in movimento tra le zone tribali, magari i bassifondi di Karachi, le montagne aride di Quetta e forse persino l’alto Kashmir. E invece scopriamo che probabilmente negli ultimi cinque anni se n’è rimasto confortevolmente nascosto in questa costruzione a metà strada tra la villona di una famiglia pashtun in difficoltà economiche e il fortino semiblindato di un signorotto del contrabbando di droga tra l’Afghanistan e il mercato nero pachistano. Il particolare che dall’esterno più caratterizza il complesso a forma di triangolo irregolare, copre almeno 5.000 metri quadrati, è il filo spinato sulla cima delle mura alte 4 metri che lo circondano interamente. «Strano. Qui nessuna villa ha mura così alte e tanto meno sormontate dal filo spinato. Qualcuno tra i vicini si era convito fosse abitata da famiglie legate al mondo criminale» , ci ha detto ieri un vicino, il sessantenne Geowel Venoz. Un altro, Awais Khan (25 anni), racconta che si erano presentati nel 2005 come una famiglia in fuga dal Waziristan meridionale dopo una violenta faida tra clan tribali locali. Ricostruire la vita nell’ultimo covo di Bin Laden e la sua famiglia (sembra due o tre mogli, assieme a 7 bambini e 2 bambine), oltre a cinque o sei fedelissimi tra corrieri e guardie del corpo, non è semplice. Le autorità pachistane regolano l’accesso ai giornalisti. Ieri è stato possibile arrivare sotto le mura di cinta, ma non superare i cancelli sigillati, solo per qualche ora dopo le 16. I servizi segreti hanno allontanato (non è chiaro se arrestato, o semplicemente spostato) le famiglie residenti nelle abitazioni vicine che avevano accettato di parlare alla stampa. E la popolazione pachistana in generale resta profondamente antiamericana e antioccidentale. La tesi che va per la maggiore è che «qui Bin Laden non ha mai messo piede» . Lo dicono ufficiosamente persino gli agenti della polizia di guardia. «È tutta una messa in scena americana. Bin Laden è vivo in qualche altro luogo. Oppure è morto da un pezzo» — ci ha ripetuto tra i tanti il viceispettore Malik Amman. Un dato emerge comunque con forza: nessun vicino di casa dice di aver visto Bin Laden. Mai, in nessuna occasione. Parlano dei bambini, che ogni tanto si recavano nei negozi vicini per acquistare «cibo, dolci e caramelle» . Spiegano di due «fratelli» di 35 e 40 anni, i cui nomi più ripetuti sono Arshad e Tariq Khan, che nel 2005 avrebbero pagato per la costruzione dell’edificio e da allora si occupavano del suo mantenimento. Raccontano che le due o tre mogli, «una forse saudita che parlava arabo, l’altra pashtun» , uscivano rarissimamente e solo rigorosamente velate anche sul viso. Ne risulta il quadro di un nucleo assolutamente isolato dai tre quartieri circostanti: Thanda Ghola, Bilal Town e Hashimi. Nella mattinata di ieri solo due giovani studenti incontrati nei pressi della gigantesca accademia militare, a meno di 500 metri in linea d’aria dal covo, hanno parlato di una «famiglia aperta, generosa, che donava al quartiere cibo e regali durante le feste religiose musulmane» . La trentina di testimonianze raccolte in seguito vicino all’abitazione sono però del tutto opposte: i Bin Laden e i loro compagni vivevano segregati in casa, non uscivano praticamente mai, neppure per recarsi nelle tre moschee della zona. Osama pregava in casa, anche al venerdì. «Erano talmente chiusi che non rendevano neppure le palline gettate per errore nel loro cortile dai bambini che giocavano a cricket. Preferivano passare qualche rupia da sotto il cancello per ripagare la pallina perduta. Tanto che i bambini avevano preso il vizio di lanciarle a bella posta al di sopra del muro per ricevere i soldi» , ricorda un vicino. Isolamento radicale e autarchia erano insomma le regole prime della latitanza. La protezione indiretta era offerta dalle basi militari e dall’accademia, oltre ai quartieri benestanti per gli ufficiali dell’esercito in pensione, di cui è costellata Abbottabad. Chi avrebbe mai pensato che nel cuore della «west point» pachistana viveva proprio il capo di Al Qaeda? Una logica spesso vincente, come provano tra l’altro le numerose vicende dei latitanti più pericolosi della criminalità italiana scoperti a condurre esistenze quasi normali per anni a poche decine di metri dalle caserme dei carabinieri. Regola prima è però non essere scoperti. I tempi per fuggire sono altrimenti quasi nulli. L’altra notte sono bastati meno di venti minuti ai soldati per cominciare a circondare il luogo del blitz americano. Bin Laden non voleva neppure che i figli andassero a scuola. «Non li ho mai visti tra i miei studenti. Che io sappia nessun bambino di quella casa usciva per studiare» , conferma Ulam Murtaza, 23 anni, maestro di un’ottantina di bambini nella Madrasa (la scuola religiosa) Abdullah Zubeidi. Per alimentarsi nel cortile di casa stavano oltre 150 galline, alcune pecore, capretti, conigli, due mucche e 4 cani da guardia. Consumavano poco gas, seppure avessero tre connessioni (meno di 10 euro al mese). Le immondizie venivano bruciate nel giardino. Talvolta i negozianti locali portavano a domicilio i prodotti richiesti: 10 litri di latte settimanali, i quotidiani, pane e scatolette. Non avevano collegamenti Internet o telefoni cellulari, men che meno satellitari. La televisione era però collegata ad un’antenna parabolica. E almeno due corrieri di Al Qaeda tenevano occasionalmente Bin Laden in contatto con il mondo esterno. Secondo la televisione nazionale Geo, nel garage sono state trovate due jeep Toyota 2.400 cc con i vetri oscurati, un generatore e riserve di benzina.
Lorenzo Cremonesi
(Da Islamabad ha collaborato Naveed Ahmad)