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 2011  maggio 05 Giovedì calendario

Il terremoto di Roma e altre catastrofi (tutte immaginarie) - Questo potrebbe es­se­re l’ultimo artico­lo che scrivo e pub­blico

Il terremoto di Roma e altre catastrofi (tutte immaginarie) - Questo potrebbe es­se­re l’ultimo artico­lo che scrivo e pub­blico. Non perché abbia deciso che è finalmente giunta l’ora di smettere questa insana at­­tività, ma perché, da quel che si legge, annuncia e denuncia in Re­te­un violento terremoto devaste­rà la Capitale il prossimo 11 mag­gio... L’allarme è generale,le pau­re s’incrociano, c’è chi consiglia di andar via quella notte o almeno di dormire in macchina. La dice­ria si è diffusa a macchia d’olio, si è gonfiata, arricchita di particola­ri. E come ogni leggenda metropo­li­tana che si rispetti, tecnicizzata o meno, non si sa quando e come sia nata.Beh,un padre ce l’ha o ce l’avrebbe:è il sismologo e astrono­mo dilettante Raffaele Bendandi da Faenza (1873-1979), il quale, si afferma perentoriamente, l’avrebbe predetto questo male­detto sisma. Lo si afferma ma non si porta alcuna prova, anzi la co­siddetta previsione è stata secca­mente smentita da «La Bendan­diana », l’associazione che ne cu­stodisce e studia le carte, che per bocca della sua presidente ha af­f­ermato con chiarezza che una ta­le previsione non è stata mai fatta e che non risulta in nessun docu­mento custodito presso di essa. In­somma, una bufala apocalittica e mediatica. Eppure... Eppure il potere della Rete è or­mai troppo forte: un cosa falsa det­ta a voce mille e mille volte alla fi­ne diventa vera e non ci sono ra­gioni, figuriamoci se rimbalza su Internet: è impossibile smentirla. Il meccanismo delle dicerie è no­to e studiato da tempo, e quelle che gli antropologi culturali han­no definito ormai come «leggen­de metropolitane » hanno trovato un terreno fertilissimo e incontrol­labile proprio grazie ad un ritrova­to della tecnoscienza che, in que­sto caso specifico, si mescola alla tendenza millenaristica presente ormai da ben prima del 2000. Non c’è in fondo grande diffe­renza tra l’umanità, che la suppo­nenza illuministica presume in­colta e superstiziosa, dell’anno Mille e quella dell’anno Duemila. Allora c’erano predicatori che gi­ravano per borghi e castelli, segui­ti da turbe autoflagellantesi, an­nunciando la fine del mondo allo scoccare del 31 dicembre 999; og­gi ci sono turbe virtuali che seguo­no profeti di sventura mediatici più o meno interessati che ci allar­mano e spaventano per una serie di eventi che provocheranno an­cora una volta la fine del mondo, parziale (come il terremoto roma­no) o globale (come nel fatidico 21 dicembre 2012). La civiltà iper­tecnologizzata del XXI secolo non si rivela poi troppo diversa da quella del X secolo. La superstizio­n­e della catastrofe in agguato è pe­raltro una costante dell’umanità: su questo piano non si sono fatti passi avanti, anzi grazie ai ritrova­ti della tecnoscienza si è potenzia­ta una sindrome ancestrale. Non c’è molto da meravigliarsi: il tema della «fine del mondo» è sempre esistita come ha dimo­strato uno storico delle religioni del livello di Ernesto De Martino in uno sterminato studio pubbli­cato postumo ( La fine del mondo , Einaudi, 1977, cui si affianca oggi uno specifico approfondimento filosofico dovuto ad Andrea Ta­gliapietra, il quale nel suo dotto ma affascinante Icone della fine ( Il Mulino), partendo da Kant, nota come di fronte all’ideadi una fine definitiva di tutto e di tutti il pen­siero di blocchi e si annulli, impo­tente a pensare oltre. La conse­guenza è che, seguendo il ragiona­mento kantiano, l’esplorazione del vuoto abissale decretato dalla fine viene allora delegato non più alla ragione ma all’ «organo della immaginazione» che elabora co­sì una serie di «immagini apocalit­tiche », dato che oggi, afferma Ta­gliapietra, assistiamo «alla ripre­sa dell’immaginazione della fine e del suo inventario figurale e sim­bolico ». La conseguenza è che «le icone della fine elaborate all’inter­no del grande codice della tradi­zione occidentale rioccupano i vuoti del nostro presente, in que­gli spazi dell’immaginario che coincidono con i miti della cultu­ra di massa, del cinema e delle nar­razioni popolari ». E quindi anche della Rete. Che esista da un bel po’ questo crogiolarsi generale in fantasie an­gosciose lo conferma un arguto e intelligente saggio di Andrea Ker­baker ( Bufale apocalittiche , Pon­te alle Grazie) dove si analizzano le apocalissi mancate all’inizio del XXI secolo: dal baco del mil­lennio alla mucca pazza, per con­cludere che la nostra è ormai la «società degli allarmi» e che sia­mo condizionati, senza poterlo impedire, dalla «Internazionale della paura» che opera indisturba­ta grazie ad un mix composto da una informazione istantanea, dal cinismo dei media, dal parere di esperti, dai cosiddetti opinion makers mossi da due unici inte­ressi: quelli di immagine e quelli economici. La nostra, afferma Kerbaker, è una società sostan­zialmente ipocondriaca: «La cer­tezza del male, dapprima basata su flebili indizi, cresce, prima pia­no, poi più rapidamente, acqui­sta spazio mentale sempre mag­giore, fino a sgonfiarsi più o meno da sola, in attesa della malattia successiva». L’ultimissimo caso del terremo­to romano lo conferma: è ciò che Kerbaker definisce come quel «senso di entropia, storicamente connaturato alla natura stessa del­l’uomo: un costante memento mori che nelle varie epoche ha portato all’immaginazione di sva­riate catastrofi finali». Ce ne faremo una ragione e so­pravviveremo anche a questo.