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 2011  maggio 05 Giovedì calendario

«Torturato dai pm peggio di Tortora» - Nell’accogliermi, Danilo Coppola non ha l’aria bellico­sa

«Torturato dai pm peggio di Tortora» - Nell’accogliermi, Danilo Coppola non ha l’aria bellico­sa. È nel corso dell’intervista che si metterà il coltello tra i denti. Il costruttore romano è un tipo magrolino, con l’aria più fanciullesca dei suoi 44 an­ni. Ha il colletto aperto, un gol­fetto bianco da bighellone ca­prese, capelli a paggetto, una barbina di tre giorni che fa tan­to viveur o lavoratore indefes­so. Sul suo groppone -si fa per dire: ha spalle esili come il re­sto- pesa una condanna in pri­mo­grado a sei anni per banca­rotta fraudolenta. «Quello che si è detto su di me, mi creda, so­no fandonie. È l’ora della chia­rezza », dice e sediamo a un ta­volo da riunione tondo e tra­sparente. Intorno, marmi bian­chi e poltroncine bianche che, sommate al bianco del golfet­to di Danilo, diffondono un’at­mosfera pasquale che, con un pizzico di fantasia, suggerisce l’idea della resurrezione di «er Cash» (nomignolo di Coppola per l’ottima abitudine di paga­re in contanti). La nuova sede del Gruppo è una palazzina pri­mi Novecento, ristrutturata senza badare a spese e vuole simboleggiare -immagino- il ritorno alla ribalta dopo sette anni di guai. Come se mi aves­se letto nel pensiero, er Cash precisa: «Oggi, ho 300 dipen­denti a busta paga ma, se si con­sidera l’indotto, do da vivere ad almeno mille persone». In­tanto carbura alla svelta e dà or­dini di portare caterve di scar­toffie per provare quanto dirà. «Dio ne scampi», penso im­paurito e al terzo faldone, per bloccare l’afflusso, strozzo i convenevoli e passo al botta e risposta. Col Fisco si è accordato per 198 milioni, 150 già pa­gati. Le banche le ridanno fiducia, il lavoro c’è. Volta pagina? «Sì. Anche se sono stato trat­tato come un criminale e ho perso centinaia di milioni. Non per ragioni di giustizia ma per distruggermi». Ha una condanna a sei an­ni. Ottimista per l’appel­lo? «Credo nella magistratura, ma talvolta viene il dubbio. Per me, tutto nasce dall’istanza di fallimento per la Micop, fatta da un pm il quale sosteneva che la società dovesse al Fisco di 7,5 milioni. Ma ero stato io stesso a evidenziare la somma nella dichiarazione dei reddi­ti. L’Agenzia delle Entrate non aveva ancora emesso la cartel­la, quindi il debito era inesigibi­le e in nessun modo utilizzabi­le per provocare un fallimen­to ». Ma il tribunale lo ha dichia­rato. «Una prima istanza è stata ri­gettata per mancanza di illeci­to. Allora, senza neanche noti­ficarmela, il pm l’ha reiterata. Il tribunale l’ha accolta senza sapere che dietro la società ci fossi io. ’Avessi saputo, non l’avrei fatto, Coppola’, mi ha detto il giudice fallimentare. All’epoca, il Gruppo fatturava 3,5 miliardi annui. Si figuri se non ero solvibile per 7,5 milio­ni ». Chi è questo Pm fumanti­no? «Inquietante. È Giuseppe Cascini». Il segretario di Anm. «Diventato dopo avermi in­criminato. Gli ho dato molto lu­stro ». Che tipo è? «L’ho conosciuto con l’arre­sto nel 2007. Ho sempre cerca­to con lui di risolvere i proble­mi. Ma Cascini voleva invece solo peggiorare le cose. Ha fat­to altre istanze di fallimento di mie aziende quando ero in car­cere impossibilitato a tutto. Quando mi accordavo col Fi­sco, si interponeva per impedi­re l’accordo». La condanna per bancarot­ta nel 2009 dimostra che i giudici hanno dato ragio­ne a Cascini. «Quando fece l’arringa era già segretario di Anm. Non ca­pisc­o come potesse contempo­raneamente fare il pm. I tre giu­dici che mi hanno giudicato so­no iscritti all’Anm e ne dipen­dono per le carriere. Immagini la serenità con cui hanno deci­so. Non tutti i magistrati sono cuor di leone». Lei aveva grandi difensori, Pecorella, la Bongiorno, al­tri. «La triste verità è che si sono appiattiti o si sono occupati po­co del mio caso. Uno mi ha det­to: ’Cascini vuole da te la resa incondizionata’, cioè la mia morte come imprenditore». Faceva il portavoce di Ca­scini! «Infatti, gli volevo menare. Mi sentivo in balia di uno scerif­fo che la mattina si alza e deci­de, tu mi sei simpatico, tu devi morire». Sempre con la regia del predetto lei si è fatto due anni di prigionia. «Dieci mesi di carcere, il re­sto in ospedale. In carcere mi hanno applicato il 41 bis, quel­lo dei mafiosi. Soffro di clau­strofobia da quando, ragazzo, sono rimasto tra le lamiere dell’ auto dopo un incidente. Da vent’anni sono in cura. Tra le sbarre ho perso 20 chili perché rigettavo anche 30 volte al gior­no. Per calmarmi mi davano 180 gocce di Lexotan. Sedato, ragionavo male e mi sono an­che tagliato le vene due volte. Un secondino mi sorvegliava a vista e teneva un rapporto gior­naliero ». E Cascini? «Sapeva come stavo attraver­so il diario del secondino. Ma mi ha impedito di vedere mio figlio appena nato con una ma­­lattia al cuore. I periti d’ufficio mi dichiaravano incompatibi­le col carcere e allora Cascini li ricusava, mandandone altri. Per otto volte, tutti hanno det­to la stessa cosa». Coi domiciliari è andata meglio? «No. Il maresciallo della Gdf di Frascati, Prosperi, che mi in­dagava segretamente dal 2003 e che è all’origine dell’accani­mento giudiziario, si è sistema­to in una villetta vicina alla mia per sorvegliarmi 24 ore su 24. Nottetempo mi fece installare i microfoni in casa. Un collega di Prosperi mi disse: ’Mi fa ver­gognare della divisa’. I Cc veni­vano a controllarmi ogni due ore, anche quando dormivo. ’Ordini superiori’, dicevano imbarazzati». Perché così belvino il ma­resciallo? «Bramosia di carriera. Ero il ventottesimo uomo più ricco d’Italia. Si sarà detto: ’Se lo ar­resto, mi promuovono’». E il pm Cascini? «Credo si ritenga socialmen­te, ai mie antipodi. Io ero il gio­vane arricchito, dunque il ne­mico di classe da abbattere». Si sente un Tortora? «Anche peggio. Morivo e Ca­scini mi teneva chiuso. Teme­va che uscendo io risolvessi in una settimana le trappole che mi aveva teso. Si erge a paladi­no della giustizia, ma si mette la legge sotto le scarpe». Pensa di denunciarlo? «E’ probabile. Sulla vicenda va fatta luce». Il suo nome è stato accosta­to alla Banda della Maglia­na. La Dia smentì, ma la vo­ce circolò. «Prosperi ha propalato la fan­donia, due giornali ci hanno ri­camato su: Il Sole 24 ore diretto da de Bortoli, con gli articoli di Claudio Gatti, e Repubblica con quelli di Carlo Bonini. Tut­ti querelati». Tentò di scalare Bnl con­tro la volontà del presiden­te Luigi Abete e del socio Diego Della Valle. Dietro le toghe, il salotto buono? «Nella finanza si è avversari, non nemici. Il motore delle to­ghe non è stato il salotto ma l’in­vidia ». Viene associato a Stefano Ricucci, anche lui romano di borgata, palazzinaro, ar­rampicatore. Si riconosce nei panni del furbetto del quartierino? «Non mi sento né furbetto, né cretino di corte e sono del tutto diverso da Stefano. Lui è un mediatore, io ho sempre co­struito immobili. Sono un im­prenditore che ha fatto pochi errori e che ha saputo prevede­re cosa avrebbe significato per l’immobiliare l’avvento dell’ euro». Nuova ombra all’orizzon­te: il processo per la scala­ta Bnl, coimputato, di Fa­zio, l’ex governatore Bankitalia, e Francesco Gaetano Caltagirone. Per lei, il pm ha chiesto tre an­ni. «E’ una pagliacciata e lo di­mostrerò. Mai operazione è stata più trasparente». Perché ora, dopo anni, esce allo scoperto? «Ho un groppo dentro. Sono vittima di un’ingiustizia e lo vo­glio proclamare». Che ha ricavato -come cit­tadino- dalla sua vicenda? «Una profonda amarezza».