PETER OBORNE, La Stampa 5/5/2011, 5 maggio 2011
I vicini di casa di Osama “Era una famiglia modello” - Nessuno può biasimarli. I Khan erano dei buoni vicini, parlavano perfettamente Pashtu - il linguaggio delle zone tribali ribelli del Pakistan con un colto accento urbano
I vicini di casa di Osama “Era una famiglia modello” - Nessuno può biasimarli. I Khan erano dei buoni vicini, parlavano perfettamente Pashtu - il linguaggio delle zone tribali ribelli del Pakistan con un colto accento urbano. Pagavano regolarmente i conti ed erano popolari tra i commercianti locali. Donne e bambini andavano e venivano, si spostavano per lo più su un furgone rosso Suzuki. La famiglia era benestante, raccontavano che avevano fatto i soldi commerciando in oro. Certo, vivevano defilati. La imponente casa di Abbottabad aveva alte mura ed era protetta da filo spinato. Non hanno mai dato i loro numeri di telefono. Non c’erano telefoni in casa, e nemmeno internet. Quando i bambini giocando a cricket buttavano le palle nel loro complesso non potevano mai entrare a cercarle. In cambio i Khan pagavano loro 100 rupie, circa 1,5 euro a titolo di risarcimento. Ma nessuno ci ha mai badato. I vicini davano per scontato che il capo famiglia, che si faceva chiamare Arshad Khan, come molti altri imprenditori del Pakistan, si fosse fatto alcuni potenti nemici nel suo viaggio verso la ricchezza. Ora sanno che il segreto che i «Khan» nascondevano era Osama bin Laden, e che «Mr Khan» era con ogni probabilità uno dei suoi uomini più fidati, Abu Ahmed al-Kuwait. Ho parlato con Mohammed Qasim, figlio di un agricoltore che vive a pochi metri dalla proprietà dei Khan. «Erano sempre per conto loro. Non vedevano nessuno del posto e nessuno da fuori». Qasim dice che nel complesso vivevano due famiglie. I capofamiglia erano Arshad Khan, sulla quarantina, e il suo fratello più giovane, Tariq. Secondo Qasim i Khan avevano in tutto otto o nove figli e nella casa vivevano anche due o tre donne. Non sa dire con esattezza quante perché le donne indossavano sempre il burqa quando uscivano dalla tenuta. Conosceva i nomi di due dei figli, Abdur Rahman e Khalid, entrambi di sei o sette anni. Anche questi bambini si esprimevano in modo forbito. Qasim mi ha detto che ogni mattina le mamme dei loro bambini uscivano di casa a bordo del Suzuki rosso del 1987. «Non so se andassero a scuola o in qualche altro posto». Ribadisce, tuttavia, di non aver mai visto Osama bin Laden, aggiungendo: «Non credo che fosse lì». La residenza dei Khan è circondata da campi sapientemente coltivati a pomodori, grano, cavoli e cavolfiori. Ho anche notato che la cannabis cresce spontanea lungo le pareti esterne della tenuta, spargendo un gradevole profumo nell’aria calda della prima estate. A Nord e a Sud, la casa dei Khan è circondata dalle catene montuose dei Serban e dei Kakol, imponenti nella media distanza. Guardando la scena, è impossibile capire come la misteriosa e solitaria famiglia Khan abbia potuto eludere gli esperti di sicurezza, notoriamente paranoici, dell’esercito del Pakistan e i servizi di intelligence. Ieri sera Pervez Musharraf, l’ex presidente del Pakistan, ha anche rivelato di essere regolarmente passato, nei suoi allenamenti di corsa, vicino al complesso ogni volta che passava da Abbottabad. La casa è stata chiaramente costruita per scoraggiare occhi indiscreti e intrusi. Non ci sono balconi - caratteristica comune invece a quasi tutte le altre case in questa parte di Abbottabad - e ha alte mura, un’altra caratteristica architettonica insolita, sembra un edificio istituzionale più che un’abitazione familiare. Un vicino di casa che non vuole essere nominato ha detto: «Non è una casa vera e propria, assomiglia di più a un magazzino». Cinque anni fa «Arshad Khan», acquistò un appezzamento di terreno isolato in questa zona residenziale di alto livello. Assunse un imprenditore locale per costruire la casa e rispose a chi glielo chiedeva che veniva da Charsadda, un villaggio vicino a Peshawar, la città che è il centro di raccolta delle regioni tribali devastate dalla guerra. Non c’era alcun dubbio che la famiglia fosse molto ricca. La loro grande proprietà si trovava in disparte rispetto alle altre abitazioni in una delle zone più eleganti della città. Alcuni vicini credevano che il signor Khan, un uomo pulito, rasato e curato con i tipici baffi dei Pashtun, avesse fatto i suoi soldi grazie a operazioni in valute estere. Ma lui aveva detto al giardiniere, un personaggiolocale ben noto, di nome Nazar, che il commercio dell’oro era alla base della sua fortuna. Oltre a non avere connessioni via telefono o internet, la casa non aveva nemmeno la tv satellitare - elemento obbligatorio per una casa di qualsiasi dimensione in Pakistan. Il Khan addirittura bruciavano la propria spazzatura, senza lasciare traccia di ciò che avevano consumato. Tutti gli altri vicini lasciavano la loro spazzatura fuori per la raccolta. Secondo i vicini i Khan si muovevano a piedi molto raramente, scegliendo di viaggiare in auto anche per percorsi molto brevi. Zarar Ahmed, 12 anni, uno dei pochi abitanti locali che abbia fatto visita alla famiglia, ha detto che gli avevano dato dei conigli. «Avevano installato una telecamera al cancello esterno in modo da poter vedere le persone prima che entrassero in casa - ha detto -. Andavo spesso a casa loro. Aveva due mogli, una parlava l’arabo e l’altra l’urdu. Avevano tre figli, una ragazza e due ragazzi. Mi hanno dato due conigli». Eppure, per quanto fossero strani, i Khan non sembrano aver destato sospetti, forse perché in Pakistan le famiglie ricche spesso rifiutano di mescolarsi con gente che considerano di classe inferiore. Gli americani ora dicono che Arshad e Tariq agivano come corrieri per il leader di alQaeda. Erano i suoi occhi e le orecchie e il suo legame con il mondo esterno. È stato attraverso i «Khan» che Bin Laden ha valutato, digerito e interpretato il mondo oltre i confini della tenuta. Gli ultimi anni della sua vita devono essere stati claustrofobici in modo esasperante. È probabile che, inavvertitamente o volutamente, siano stati i Khan a tradire Bin Laden. L’America ha sostenuto che i corrieri sono stati avvistati durante uno dei loro viaggi compiuti per lui e seguiti. Ma molti ad Abbottabad hanno una teoria diversa. Molti con cui ho parlato pensano che il temuto Isi - il braccio di intelligence dello Stato pakistano – non potesse non sapere che la roccaforte dei Khan, ad appena un chilometro dall’accademia militare del Pakistan, ospitava l’uomo più ricercato del mondo. Alla fine Bin Laden potrebbe essere stato consegnato dai suoi rapitori in un grande accordo tra America e Pakistan. Mohammed Qasim, il figlio del contadino, è stato coinvolto negli eventi epocali che hanno portato alla morte di Bin Laden nelle prime ore di domenica. Ha detto che uno degli elicotteri delle forze speciali statunitensi è atterrato nel campo dietro casa sua. Ne sono usciti uomini mascherati che parlavano il pasthu correntemente. Li ha sentiti aprirsi la strada nella fortezza dei Khan, seguiti dalle grida di allarme di donne e bambini. Venti minuti dopo, ha sentito gli elicotteri partire, portando con loro il corpo di Bin Laden. Praticamente non c’era alcun segno di lotta quando sono arrivato a casa della famiglia Khan. Nessun segno di pallottola sui muri. All’interno del complesso,tuttavia, una delle pareti appariva assai danneggiata. Probabilmente dove era caduto l’elicottero americano. Nonostante una intensa operazione di pulizia da parte dell’esercito pakistano, pezzi di metallo bruciato e acciaio fuso erano sparsi in tutto il campo di grano e nell’orto coltivato a cavoli attorno alla residenza. I bambini della zona rovistavano tra i campi, raccogliendo pezzi del relitto, con l’idea di venderli. Ho pagato 100 rupie per un tubo di acciaio contorto da portare via come souvenir. Ma il resto di Abbottabad era tranquillo. Andandomene mi sono fermato a guardare un gruppo di studenti locali che giocavano a cricket. Dopo aver chiesto il punteggio ho domandato a Faizan, il battitore di apertura, che ne pensava dell’evento sensazionale che aveva reso così famosa la sua città natale. Mi ha risposto: «Non è un problema nostro. Dobbiamo preoccuparci dei nostri studi».