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 2011  maggio 04 Mercoledì calendario

LA SITUAZIONE A GAZA DOPO LE RIVOLTE ARABE - A

proposito della sua risposta relativamente al rapporto Goldstone, mi piacerebbe fare alcune considerazioni. Se lei chiude la sua risposta affermando che il «conto» delle vittime a Gaza in quel drammatico periodo è «eloquente» non vi è dubbio alcuno che risulterebbe che la responsabilità dell’accaduto ricada su Israele. In perfetta buona fede ritengo viceversa che vadano fatte considerazioni del tutto assenti nel Suo scritto e più precisamente: 1) quella di Israele è stata una reazione al lancio di un numero impressionante di razzi, nel corso di anni, da parte di Hamas contro la popolazione civile Israeliana: anche l’Italia reagirebbe in maniera molto violenta se piovesse ripetutamente un enorme quantità di razzi sulla propria popolazione da parte di un vicino. 2) Quanto alla sproporzione, nella II guerra mondiale, per fare un esempio, le vittime naziste furono di gran lunga superiori a quelle inglesi : questo significa che i nazisti avevano ragione? Lo scopo di questa mia non è polemica sterile: mi piacerebbe semplicemente verificare una maggiore equidistanza.
Franco Cohen
franco. cohen@yahoo. it
Caro Cohen, al di là di qualsiasi confronto fra le vittime dei due campi, la migliore risposta alla sua lettera è una riflessione sul problema delle responsabilità, anche alla luce di ciò che è accaduto negli scorsi giorni. È possibile sostenere che esiste, nonostante le provocazioni di Hamas, una responsabilità politica israeliana? La nascita di Hamas, all’epoca della prima Intifada, fu incoraggiata dai servizi israeliani nella convinzione che l’organizzazione islamista sarebbe stata un spina nel fianco di quella laica di Yasser Arafat. Il calcolo si è rivelato esatto e Israele, da allora, non ha mai smesso di soffiare sul fuoco delle divergenze che oppongono gli islamici di Gaza ai laici di Al Fatah. Avrebbe potuto individuare i dissensi che certamente esistono all’interno di Hamas, e isolare gli estremisti di Gaza dal resto della popolazione. Ma ha preferito considerare l’intera Striscia alla stregua di una minaccia da trattare con il rigore dell’assedio e colpire con severità. Questa strategia non era priva di una certa fredda razionalità. Serviva a indebolire il fronte palestinese e a segnalare contemporaneamente che Israele avrebbe negoziato soltanto con i palestinesi buoni della Cisgiordania, non con quelli incorreggibili della Striscia di Gaza. Ma la strategia avrebbe avuto un senso e una giustificazione soltanto se il governo di Gerusalemme avesse dato a Mahmud Abbas un segno tangibile della sua disponibilità al negoziato, se avesse consentito al leader palestinese di vantare alcuni positivi risultati. Ma il governo israeliano, soprattutto dopo il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu, non ha mai smesso di autorizzare e finanziare gli insediamenti ebraici nei territori occupati: una politica che ha avuto il duplice effetto di screditare Abbas e di giustificare, agli occhi di molti, la risposta radicale e militante di Hamas. L’obiettivo di Israele, quindi, non era il negoziato, ma la divisione permanente del campo palestinese e la creazione, nei territori occupati, di un numero crescente di fatti compiuti. Lo ha fatto nella convinzione di potere sempre contare, in ultima analisi, sulla solidarietà degli Stati Uniti e sulla collaborazione dell’Egitto di Hosni Mubarak. Le rivolte nord-africane e, in particolare, gli avvenimenti egiziani hanno cambiato il quadro politico. L’accordo del Cairo fra Hamas e l’Olp per la formazione di un governo di riconciliazione dimostra che Israele non può contare oggi né sull’Egitto, né sulla reciproca ostilità dei due maggiori gruppi palestinesi. Le segnalo a questo proposito, caro Cohen, un’analisi di Janiki Cingoli nell’ultimo bollettino del Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente, www. cipmo. org) in cui l’autore descrive la minaccia di isolamento che incombe oggi su Israele.
Sergio Romano