MASOLINO D’AMICO, La Stampa 4/5/2011, 4 maggio 2011
Agassi, il campione che odiava il suo sport - Quando Andre Agassi aveva sette anni suo padre, un ex pugile armeno-iraniano che faceva il direttore di una sala giochi a Las Vegas ma anche l’accordatore di racchette, cominciò a prepararlo per il tennis; coi tre figli precedenti aveva già tentato invano
Agassi, il campione che odiava il suo sport - Quando Andre Agassi aveva sette anni suo padre, un ex pugile armeno-iraniano che faceva il direttore di una sala giochi a Las Vegas ma anche l’accordatore di racchette, cominciò a prepararlo per il tennis; coi tre figli precedenti aveva già tentato invano. L’ossessiva istruzione comportava colpire 2500 palline ogni giorno, un milione l’anno, palline sparate da una macchina che Agassi padre aveva reinventato, avendo anche acquistato un’abitazione quasi nel deserto, ma provvista di un terreno in cui ricavare un campo da tennis. Andre crebbe senza conoscere altro tipo di esistenza. La scuola era un optional, accantonato definitivamente quando il genitore, incoraggiato dai successi del rampollo in tornei dove batteva ragazzini più grandi di lui, lo spedì dodicenne in Florida, alla reclamizzata Accademia di Nick Bollettieri. Questo in realtà era un lager per adolescenti male alloggiati e peggio nutriti, costretti a esercitarsi incessantemente in una competizione feroce. Andre si era aspettato di trovarci un miglioramento rispetto alla schiavitù inflittagli a casa, e quando scoprì di essersi sbagliato reagì adottando comportamenti provocatori - si mise un proibitissimo orecchino, si fece tagliare i capelli come un mohicano, infranse regole disciplinari. Da ultimo tentò addirittura la fuga, ma a quel punto lo stesso Bollettieri, un ex marine con la mania dell’abbronzatura che aveva inventato quella singolare istituzione, gli offrì di esonerarlo da ogni retta e di gestire personalmente la sua preparazione. Andre lasciò fare, limitandosi a insistere con qualche stravaganza tipo presentarsi alle gare con i jeans tagliati al ginocchio invece dei consueti calzoncini, il che finì per renderlo popolare col pubblico giovanile. Bollettieri aveva capito questo, ma soprattutto si era reso conto dello straordinario talento del soggetto. Quel ragazzetto infatti sarebbe diventato un campione, vincendo tutti e quattro i tornei del cosiddetto Grande Slam (uno, gli Open d’Australia, più volte) e la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Eppure nella sua autobiografia appena tradotta per Einaudi ( Open , pp. 502, 20) il campione non fa che ripetere di odiare il suo sport, anzi, di averlo sempre odiato. Di solito gli eroi di libri consimili elencano i loro successi e non si soffermano sulle delusioni. Agassi fa il contrario. La sua memoria portentosa gli fa rievocare nel dettaglio decine di incontri e di avversari, ma la maggior parte del tempo è per descrivere sconfitte, e questo quasi con compiacimento. Le sconfitte lo segnano, mentre le vittorie alla fine lo lasciano indifferente. Di sconfitte comunque ne ha conosciute tante, nessuno come lui è crollato nella polvere per poi risorgere, crollare ancora e ricominciare di nuovo. Il primo slam lo vinse a Wimbledon, sulla superficie a lui meno adatta, e a conclusione di un periodo nerissimo. Il suo stesso aspetto cambiò clamorosamente da un giorno all’altro. Affetto da calvizie precoce, nascose a lungo le perdite giocando con in testa un parrucchino, finché, stufo, non si rapò a zero, diventando da folletto trasgressivo una specie di malinconico impiegato della racchetta. La sua irrequietezza comportava cambiamenti clamorosi. L’anno successivo a quello in cui arrivò per la prima volta a essere il numero uno nella classifica computerizzata perse una tale serie di incontri «facili» da dover ricominciare quasi daccapo, con tornei minori e iscrizioni fuori tabellone. Il suo gioco tutto tenacia e resistenza aveva bisogno di un’efficienza fisica che comportava allenamenti feroci, e anche cedimenti e lunghi periodi di recupero. Il libro termina ringraziando lo scrittore che ha aiutato anonimamente l’autore a scriverlo, ed è un ottimo scrittore, J.R. Moehringer, quello del Bar delle grandi speranze . Così si spiega lo stile rapido e efficace, ma Open è molto più interessante di una normale storia di vittorie sportive. Col premio Pulitzer al fianco, Agassi ha infatti cercato in primo luogo di dare un senso alla propria vicenda, quel senso che lo eludeva anche mentre si batteva col coltello tra i denti. Faccio questo solo perché non so fare altro?, si domandava. E invidiava la serenità del suo principale rivale Pete Sampras, il quale non si poneva problemi esistenziali, ma al massimo solo tecnici. Sì, Agassi ha ereditato la tenacia di suo padre; ma che vita è la sua? Viaggi e viaggi in compagnia dei suoi soli veri amici, gli stessi per tutta la vita (il preparatore atletico, il coach, il consigliere, che gli danno soprattutto l’affetto di cui è tanto bisognoso); e poco tempo per le donne. Oltretutto è timido, e quando qualcuna gli piace deve chiedere al suo entourage dritte su come dichiararsi. Ha un lungo flirt con una celebrità che poi sposa, Brooke Shields, ma poi non si integra col di lei mondo hollywoodiano. Tutto però finisce bene. Trova l’anima gemella nella bella e anche lei timida, e campionessa, Steffi (lui la chiama Stefanie) Graf, altra talentuosa vittima di un papà negriero. Lei ormai è matura per il ritiro, e ben felice di questo, mentre lui resiste ancora un paio di anni, imponendo al suo fisico logoro prove sempre più dolorose. L’episodio più gustoso del libro è l’incontro tra i padri-padroni degli ex prodigi, con Graf che dopo avere ammirato le macchine di tortura escogitate da Mike Agassi non accetta di sentirsi dire che se le avesse avute a disposizione Steffi avrebbe imparato il rovescio a due mani, e vinto ancora di più. I due si accalorano fino al punto di sfidarsi a un match di boxe che viene sventato solo all’ultimo momento. I figli invece sono anime gemelle. Beati di non dover giocare più e di avere a loro volta dei figli cui nulla verrà imposto, si dedicano con fierezza a una fondazione benefica per bambini indigenti di Las Vegas, cui verrà impartita quell’istruzione di cui loro, poveri miliardari, sono stati privati.